Frankenstein: il suono del mostro nella musica e nelle canzoni
C’è qualcosa di eternamente umano nella creatura di "Frankenstein”, in quel suo essere nato dall’ambizione e dalla colpa, dal desiderio di oltrepassare i confini della natura e dalla condanna che segue l’atto di creazione. È un mito che attraversa i secoli come un’eco di domande irrisolte: cosa significa essere vivi, e fino a che punto l’uomo può spingersi nel forgiare la vita stessa? Con il nuovo film di Guillermo del Toro, presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia 2025 e presto disponibile su Netflix dal 7 novembre, il mostro torna a respirare, a parlare, a rispecchiare il nostro tempo con la sua malinconia e la sua rabbia. Ma oltre che sullo schermo, “Frankenstein” ha trovato voce nella musica, un linguaggio che, come lui, rinasce continuamente, si trasforma, ricompone membra diverse in un unico corpo sonoro. Se il cinema ne continua a custodire l’immagine, la musica ne ha catturato l’anima, e “Frankenstein” continua a vivere nei suoni, nei testi, nei corpi distorti che danzano sul palco. Dall’hard rock all’elettronica, dal metal alla canzone d’autore, il mito di Mary Shelley ha ispirato artisti, titoli e riflessioni: un viaggio tra riff, visioni e mostri interiori.
Alice Cooper – “Feed My Frankenstein” (1991)
Forse il tributo più celebre e ironico al mostro di Mary Shelley arriva da Alice Cooper, il sacerdote del teatro horror in musica. Nel suo “Hey Stoopid” del 1991, Cooper alimenta la propria creatura con chitarre taglienti e doppi sensi grotteschi: “Feed my Frankenstein”, canta, tra lussuria e follia. La canzone, rivisitazione del brano originariamente scritto e pubblicato dai Zodiac Mindwarp and the Love Reaction, resa ancora più iconica dal cameo nel film “Wayne’s World”, è un manifesto dell’estetica shock rock: il mostro come simbolo di eccesso, desiderio e libertà dalla morale.
The Edgar Winter Group – “Frankenstein” (1972)
Un mostro strumentale, costruito pezzo dopo pezzo in studio come la creatura stessa del romanzo: “Frankenstein” di Edgar Winter è un trionfo di energia fusion tra chitarra e sintetizzatori. Pubblicato nel 1972, il brano si guadagnò il primo posto nella classifica Billboard grazie al suo groove esplosivo e al celebre assolo di synth. Nessuna voce, nessuna parola: solo il respiro elettrico della macchina e la potenza del corpo sonoro, a incarnare la vita che esplode nella materia inanimata.
The New York Dolls – “Frankenstein (Orig.)” (1973)
Nel 1973, i New York Dolls portarono “Frankenstein” nei bassifondi glam-punk di Manhattan. Nella loro “Frankenstein (Orig.)”, la creatura diventa metafora di una città che genera esseri deformi, identità ibride, anime fuori posto. David Johansen urla come un moderno Prometeo rock’n’roll, mentre la band ricompone il caos urbano in un suono sporco, ribelle e decadente: il mostro come simbolo dell’alienazione moderna.
Iced Earth – “Frankenstein” (2001)
Nel concept album “Horror Show”, gli Iced Earth trasformano la leggenda in un racconto metal epico e drammatico. “Frankenstein” è una cavalcata heavy che esplora la prospettiva della creatura: la rabbia, la solitudine, la ricerca di accettazione. Tra orchestrazioni e riff serrati, la band americana restituisce il pathos tragico del romanzo, dove il vero orrore non è il mostro, ma l’umanità che lo respinge.
Blue Öyster Cult – “The Siege and Investiture of Baron von Frankenstein’s Castle at Weisseria” (1988)
I Blue Öyster Cult hanno sempre amato la mitologia gotica e la letteratura visionaria, e in questo brano dal titolo monumentale, tratto da “Imaginos”, costruiscono una mini-sinfonia metal progressiva. Il “Barone Frankenstein” diventa figura di conoscenza proibita, di scienza mistica e potere oscuro. Un racconto colto e surreale, dove la musica intreccia orchestrazioni, assoli e suggestioni da poema romantico.
Misfits – “Ghost of Frankenstein” (2003)
Il punk horror dei Misfits trova in “Ghost of Frankenstein” una delle sue incarnazioni più dirette. Nella tradizione dei film Universal, la band americana fonde cinema, fumetto e sonorità grezze per dare vita al fantasma del mostro. Breve, violenta, viscerale: la canzone è l’ennesima resurrezione del mito nel linguaggio del rock più estremo, che ne celebra la furia più che la malinconia.
Enrico Ruggeri – “Frankenstein” (2013)
In Italia, Enrico Ruggeri ha dedicato al mito un intero concept album, “Frankenstein”, in cui la creatura è riletta come simbolo della diversità e dell’incomprensione. Attraverso testi densi e orchestrazioni teatrali, Ruggeri intreccia la leggenda di Shelley con riflessioni sulla scienza, la fede, la fragilità dell’uomo moderno. Un’opera d’autore che traduce il gotico in introspezione esistenziale.
Rammstein – “Mutter” (2001)
Nel brano “Mutter”, i Rammstein rielaborano la parabola di Frankenstein in chiave freudiana e disturbante. Il protagonista, nato artificialmente da un esperimento, maledice la “madre che non lo ha mai partorito”. Il linguaggio visivo e sonoro della band tedesca — freddo, meccanico, ma carico di pathos — trasforma il mito in un incubo di alienazione e desiderio di nascita. La creatura, di nuovo, parla di noi: figli di un’epoca che genera vita in laboratorio e cerca ancora calore umano tra i circuiti del proprio corpo.
La Cramps e il volto del mostro
Nel 1972, i testi dei primi dischi di Franco Battiato furono firmati con lo pseudonimo “Frankenstein”: dietro c’erano Sergio Albergoni e Gianni Sassi, menti visionarie che fondarono la leggendaria etichetta Cramps Records, la cui effigie era proprio il volto del mostro. La Cramps fu laboratorio di avanguardia milanese, casa di Area, Finardi, Arti & Mestieri, Lucio Fabbri e molti altri. Anche qui “Frankenstein” era simbolo di rinascita e sperimentazione: la musica come corpo ricomposto da frammenti di generi, idee e politica.