Motta tra musica e cinema: "Cerco la fame degli esordi"
Dieci anni fa più o meno in questo periodo si preparava a chiudere le lavorazioni del suo disco d’esordio da solista, “La fine dei vent’anni”, tra i lavori più belli del cantautorato italiano degli Anni Duemiladieci, tanto da diventare subito un classico della scena (vincendo pure la Targa Tenco come “Miglior Opera Prima”). Con quel disco Francesco Motta, per gli amici semplicemente Motta, classe 1986, si lasciava alle spalle l’esperienza dei Criminal Jokers, la band con la quale si era fatto conoscere dai seguaci della scena indipendente e alternativa, partendo dalla provincia Toscana per conquistare i sottoscala di tutta Italia, per iniziare una nuova avventura. Un decennio e quattro dischi dopo il cantautore toscano è un artista talmente maturo e navigato che dalla musica, oggi, cerca «il timore di non riuscire a farcela». Un po’ come agli esordi. Lo raggiungiamo al telefono mentre è a Venezia, impegnato alla Mostra del Cinema come membro della giuria che assegnerà il Premio Inclusione e Sostenibilità Edipo Re, nato per sostenere la distribuzione nelle sale italiane di opere cinematografiche dall’alto spessore culturale e artistico. Intanto è appena uscito al cinema “Tutta colpa del rock” di Andrea Jublin, con Lillo, Maurizio Lastrico, Elio e Naska, di cui ha firmato la colonna sonora (il disco è uscito per CAM Sugar). Ma le due esperienze sono solo il punto di partenza per parlare di questa fase della sua carriera.
Quella di “Tutta colpa del rock” è la sesta colonna sonora che firmi dopo quelle di “Goodbye darling” di Simone Mainetti, “Letto n. 6” di Milena Cocozza, “La terra dei figli” di Claudio Cupellini, “The Cage” di Massimiliano Zanin e “Non riattaccare” di Manfredi Lucibello. Il mondo del cinema ti intriga sempre di più?
«A questi titoli bisogna aggiungere anche due cortometraggi, frutto della collaborazione con un regista inglese uno e con un canadese l’altro. Mentre studiavo composizione di musica per film al Centro Sperimentale di Cinematografia a Roma risposi a due annuci su internet. Ero appena arrivato nella Capitale, in un momento di ricerca personale dopo la fine del percorso dei Criminal Jokers. Avevo iniziato a lavorare al mio disco da solista ma allo stesso tempo cercavo strade parallele. Il cinema mi ha fagocitato totalmente».
Proposte da attore, con quella faccia lì, ti sono mai arrivate?
«In “Tutta colpa del rock” faccio un cameo, insieme ai miei compagni di band Giorgio Maria Condemi, Cesare Petulicchio e Roberta Sammarelli (già bassista dei Verdena, ndr). Secondo me sono un cane maledetto (è una citazione di come veniva apostrofato in “Boris” il personaggio interpretato dalla moglie Carolina Crescentini, ndr). Ma Carolina ha approvato».
Cos’è che ti piace del lavoro come compositore di colonne sonore?
«La bellezza di fare colonne sonore è che hai una grande libertà espressiva, perché il racconto è stato scritto da un altro. Paradossalmente i paletti mi danno più libertà. Per “Tutta colpa del rock” ho ripescato un certo tipo di rock’n’roll sghembo, che fa riferimento a gruppi con i quali sono nato e cresciuto, come i Violent Femmes. Con i Criminal Jokers cominciammo suonando per strada cover di loro brani: erano talmente sconosciuti in italia che la gente pensava che fossero canzoni nostre. Per la colonna sonora ho richiamato il bassista dei Criminal Jokers, Simone Bettin, che non vedevo da 15 anni perché è andato a vivere a Berlino».
Oltre all’attività come compositore per il cinema, c’è per caso un nuovo disco che bolle in pentola a due anni da “La musica è finita”?
«Sì. Ci sto lavorando. Ma per vari motivi sto ritrovando il mio tempo di fare le cose: penso che sia necessario, avere il proprio tempo. In alcuni momenti questa cosa è venuta meno».
Quando, ad esempio?
«Tra “La fine dei vent’anni” e “Vivere o morire”, ad esempio. Fu un momento critico per riuscire a mantenere la calma e fare le cose come volevo farle io. L’ultimo disco, “Suona - Vol. 1”, l’ho fatto con la mia etichetta (Sona Records, ndr)».
E sarà così anche per il prossimo?
«Ancora non lo so. Penso solo alle canzoni».
In che direzione stai andando con quelle che stai scrivendo?
«Presto per dirlo. Una cosa che posso dire, però, anche in qualità di produttore, è che da ascoltatore sono completamente stanco di tutte le cose iper prodotte».
Cosa intendi?
«L’idea che un produttore sia più importante della canzone è una cosa che trovo allucinante. Ed è una cosa che negli ultimi anni è venuta fuori di più che in passato».
È una prassi della scena rap e trap: i nomi dei produttori vengono citati accanto ai titoli delle canzoni.
«Quest’estate suonando in giro per l’Italia solo piano e voce (il 7 settembre sarà a Lecco, il 17 a Torino e il 7 novembre a Brescia, ndr) ho capito che le canzoni hanno una magia tutta loro. E che le canzoni funzionano senza sovrastrutture. Lo studio è diventato talmente a mia immagine e somiglianza che sto cercando di starci il meno possibile, di scrivere carta e penna e pianoforte. Qualcosina c’è già, comunque. Due anni fa che ho lavorato a un brano con Marta Salogni, che è la più grande produttrice che abbiamo di questi tempi, un orgoglio tutto italiano (già al fianco dei Depeche Mode, tra gli altri, come ingegnere del suono, ndr)».
Cosa cerchi oggi dalla musica?
«Aver paura della musica stessa. Provare il timore di non riuscire a farcela, di sbagliare. Quella è la cosa che mi ha dato più stimili quando ho iniziato. E mi ha fatto venire quella fame che mi ha portato a scrivere cose che mi porto ancora dietro. Sono andato a Londra a sentire vedere Sharon Van Etten e quest’estate ho ascoltato dal vivo anche Nick Cave. Vado a lezione dai maestri. Forse anche per questo mi sta tornando la fame di cercare di alzare l’asticella e non darmi le pacche sulla spalla».
L’anno prossimo farai 40 anni. Dobbiamo aspettarci un aggiornamento de “La fine dei vent’anni”?
«Non saprei come spiegarla, la fine dei trenta. Mi fa tenerezza riascoltare quali erano i miei problemi dieci anni fa. Ma quel disco l’anno prossimo compirà dieci anni e voglio festeggiarlo come si deve».