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Max Pezzali: oggi il suo successo è un po' anche la mia rivincita

Ovvero, quando in Italia di adulti a cui piaceva Max Pezzali eravamo solo in due
Max Pezzali: oggi il suo successo è un po' anche la mia rivincita

Mi permetto di riproporre qui un articolo che scrissi su Rockol nel 2011 recensendo il suo disco "Terraferma". Un po' per il gusto di sottolineare che "ve l'avevo detto, io"; un po' per rendere un tardivo omaggio a Edmondo Berselli; un po' come risposta ai miei colleghi che allora mi sbeffeggiavano e adesso sono in fila a elogiare Max per il successo dei suoi concerti.

 

Nel 1995 mi sentivo un po’ stupido.
“E avevi ragione!” diranno subito i miei piccoli lettori.
Abbiate pazienza: lasciatemi almeno spiegare. E fare un piccolo passo indietro.

Nel 1992 abitavo con una signora e le sue due figlie, che allora avevano nove e otto anni. E che come le loro coetanee conoscevano a memoria tutte le sigle televisive, in particolare quelle di Cristina D’Avena. Ma già cominciavano - con mio grande fastidio - a voler guardare in televisione, il pomeriggio, “Non è la RAI”. Quell’anno però scoprirono l’esistenza di una canzone intitolata “Hanno ucciso l’Uomo Ragno”, e pretesero di avere il Cd del gruppo che l’aveva registrata - certi 883. Lo ottennero, e cominciarono ad ascoltarlo compulsivamente, come fanno sempre i bambini a quell’età. Quindi, inevitabilmente, lo sentivo anch’io. Ricordo un paio di titoli, “S’inkazza (Questa casa non è un albergo)” e “Non me la menare”, che secondo me rispecchiavano in pieno la strepitosa furbizia di Claudio Cecchetto, scopritore e produttore della band (che poi era composta da due persone).
“Hanno ucciso l’Uomo Ragno” diventò quello che si dice “un tormentone”; il che mi rese abbastanza invisi gli 883, come spesso mi capita quando una canzone ottiene un successo superiore a quelli che secondo me sono i suoi meriti.

L’anno dopo, venute a conoscenza dell’uscita di un nuovo disco degli 883, le due bambine lo vollero subito. E nei viaggi in macchina casa-scuola e scuola-casa non volevano ascoltare altro che non fosse “Nord Sud Ovest Est”. Fu così che mi accorsi che alcune canzoni di quel secondo album (la title track, con la sua atmosfera “mariachi” fintoallegra e in realtà malinconica; “Sei un mito”, con quel fantastico attacco del testo - “Tappetini nuovi, arbre magique...”; “Rotta per casa di Dio”, storia perfetta di una serata sfigata - “con in mano birra e Camogli / quattro deficienti a fare cazzate come non succedeva da un pacco di tempo”; e l’inattesa “Come mai”, un lento con le stimmate dell’evergreen e un testo imprevedibilmente romantico) erano davvero non male. Anzi, per dirla tutta, erano molto meglio di tante canzoni di quel periodo di cantanti e gruppi assai più considerati dalla stampa musicale.
Con prudenza, cominciai a comunicare questa mia opinione ai colleghi; ne ricavai sberleffi e sghignazzi, o sguardi di compatimento. E lasciai perdere.
Ma nel mio personalissimo cartellino i nomi di Max Pezzali e Mauro Repetto (allora ancora in coppia) erano ben sottolineati.

Passarono due anni, e nel disco seguente degli 883 (le bambine nel frattempo se li erano dimenticati), che feci in modo di farmi mandare, trovai una canzone enorme: “Gli anni”. Qualcuno la conosce, qualcuno se la ricorda? Un commosso e commovente inno alla nostalgia, ai “bei tempi andati”, che benché fossero quelli di Max Pezzali, l’autore del brano (quelli “del grande Real, di ‘Happy days’ e di Ralph Malph”) e non i miei (Pezzali è del 1967, io del 1953) mi sembravano perfettamente sovrapponibili ai miei, almeno nel sentimento e nell’espressione.
E fu così che io, quarantaduenne, divenni un grande e convinto estimatore di Max Pezzali. E cominciai a sentirmi un po’ stupido. Intendiamoci: non che un estimatore di Max Pezzali debba essere considerato uno stupido, anzi; tutt’altro. Ma il fatto è (era) che Max era considerato un personaggio per ragazzini e ragazzine, poco più che adolescenti: e non sembrava che ci fosse ragione valida per la quale potesse piacere a un ultraquarantenne. E l’altro fatto era che Max Pezzali era considerato un esponente del pop commerciale: roba che i miei colleghi di allora (e di oggi, se è per quello) sostengono di schifare.
Sicché, mi sentivo un “diverso”, un alieno, o comunque uno meno colto e meno preparato della media dei giornalisti musicali - e più in generale della media delle persone della mia età. Il che non mi impediva di commuovermi un po’ ogni volta che riascoltavo “Gli anni”; e non mi impediva di dispiacermi che non ci fosse, fra i cantautori o almeno fra gli autori miei coetanei, qualcuno che sapesse raccontare con la stessa efficacia e la stessa sincerità di Max le piccole cose della vita quotidiana, e con un linguaggio colloquiale e disinvolto, non nell’orrendo “canzonettese” che infestava allora, e infesta ancora oggi, i testi delle canzoni italiane.

E insomma ero lì che mi coltivavo la mia passioncella per Pezzali / 883, un po’ vergognandomene (come certi adulti che ancora “fanno l’album delle figu”, cioè raccolgono le figurine Panini dei calciatori), e senza dire a nessuno che trovavo geniale il testo di “La dura legge del gol” (il singolo dell’album omonimo, uscito nel 1997) ed emozionanti il testo e la melodia di “Nessun rimpianto” (“Non ho nessun rimpianto nessun rimorso / soltanto certe volte capita che / appena prima di dormire / mi sembra di sentire / il tuo ricordo che mi bussa / e mi fa male un po'”) quando il mio amico Luca Bernini, che è una testa lucida, mi consigliò (anzi, mi raccomandò caldamente) di leggere un libro intitolato “Canzoni (storie dell’Italia leggera)”. Lo comprai, sulla fiducia, ed ebbi l’epifania. Non solo quel tizio lì, quell’Edmondo Berselli che non sapevo chi fosse, aveva dedicato un’opera (“un’operetta”, diceva lui, con understatement) alla canzonetta italiana; non solo scriveva delle cose fantastiche e completamente condivisibili (“Alcune generazioni sono cresciute e cambiate sentendo sullo sfondo della loro vita certe canzoni. Ancora adesso, disincantati come siamo, sappiamo per istinto che quelle canzoni fanno parte di una memoria che ogni tanto si riaccende, facendo risuonare musica e parole”); non solo il suo libro dedicava capitoli a Mina e Celentano, Shel Shapiro, Vasco Rossi e Claudio Villa, Battisti-Mogol, Battisti-Panella - e, pazzesco!, ‘sto Berselli scriveva che erano meglio i dischi di Battisti-Panella di quelli di Battisti-Mogol, proprio come pensavo io - ma, udite udite, l’ultimo capitolo era interamente dedicato a Max Pezzali. E in quel capitolo Berselli diceva delle cose buone e giuste delle canzoni degli 883; o almeno a me sembravano buone e giuste, forse anche perché erano le stesse cose che pensavo io; però erano espresse con una fantastica proprietà di linguaggio e con una densissima leggerezza di concetti alle quali io non sarò mai capace di avvicinarmi.
E insomma, di colpo non mi sono più sentito solo. Di adulti - Berselli era del 1951 - che apprezzavano Max Pezzali ce n’era almeno un altro, nel mondo.

Quella scoperta mi ha rincuorato. Mi dicevo: se un uomo intelligente e colto come Edmondo Berselli stima e apprezza Max Pezzali, allora posso anch’io permettermi non solo di stimarlo e apprezzarlo, ma anche di dichiarare pubblicamente la mia stima e il mio apprezzamento. Cosa che ho fatto regolarmente, nel decennio successivo, fregandomene finalmente degli sguardi di compatimento (sempre meno numerosi, per la verità) che accoglievano i miei elogi a Max Pezzali.
Adesso sono qui a recensire, per la prima volta per Rockol, un disco di Max Pezzali. E’ il mio momento. E mi sento come un personaggio di una canzone di Max Pezzali. Pronto, entusiasta, ma timoroso di fare una puttanata.
Quindi: prima di tutto, due punti fermi.

Il primo: la questione della metrica e degli accenti “spostati”. A me è sempre piaciuto che Max riuscisse a risolvere il problema delle finali tronche “andando a capo”, ovvero chiudendo frase e concetto nella riga successiva, o addirittura spostando l’accento all’interno di una stessa parole. Non l’ho mai ritenuto un espediente di comodo, ma una scelta stilistica; che si può approvare o no, ma che è una scelta, e nemmeno facile da applicare (sennò non ci si spiegherebbe come mai in vent’anni non l’ha mai applicata qualcun altro, a parte - per quel che ne so io - una fantastica pazza giovanissima cantante romana di nome Giulia Nofri che un giorno o l’altro, vedrete, diventerà famosa, e ricordatevi che sono stato io il primo a dirvelo).

Il secondo: per me, Max Pezzali non è da meno dei Pet Shop Boys. E badate che parlo di un gruppo che io adoro, benché in Italia non siano mai stati considerati - come meriterebbero - dei geni. Ed è per questo che m’incazzo sempre quando ascolto i suoi dischi. La voce di Max, pur differente, possiede a mio avviso la stessa qualità malinconica di quella di Neil Tennant; e le melodie che sa scrivere non sono da meno - assolutamente non sono da meno - delle melodie delle canzoni dei Pet Shop Boys. Peccato che - sarà una questione di soldi, sarà una questione di approccio, sarà una questione di diversità fra Italia e Inghilterra - fra la produzione (dirò meglio: fra la realizzazione) di un disco dei Pet Shop Boys e quella di un disco di Max Pezzali ci sia un abisso (a favore della prima, ovvio). L’estate scorsa, il 23 giugno, sono andato a Pavia per l’unico concerto italiano dei Pet Shop Boys (serata fantastica, sia detto per inciso; anche perché non c’era nessun giornalista, dico nessuno, e io non ero lì da giornalista ma da fan). E rientrando e ascoltando un best dei Pet Shop Boys, forse anche perché tornavo da Pavia che di Pezzali è la città natale, pensavo che mi piacerebbe che Max registrasse un Cd di canzoni dei Pet Shop Boys con testi da lui riscritti in italiano.

“Terraferma” non è il miglior disco di Max Pezzali, no, d’accordo. Ma è, credo, quello dal quale Max può davvero partire per una strada nuova, per il suo “secondo tempo”, magari abbandonando, fin dal prossimo lavoro, con coraggio e un po’ di incoscienza, le sicurezze con le quali si è finora sempre protetto (il team di lavoro consolidato, per esempio). Mettendosi in gioco, rinunciando ai suoi confortanti luoghi del cuore, a “cose e persone” che gli succhiano via “anche soltanto un grammo di energia”, magari anche cercandosi un collaboratore/partner per le musiche, e però continuando a crescere, cioè continuando a scrivere e a cantare la vita di un quarantaquattrenne, marito e padre, alle prese con la quotidiana guerra con la quotidianità. Non ho sbagliato citazione: intendo proprio dire quello che ho scritto. La quotidiana guerra con la quotidianità, la routine, quella che ha ucciso di stanchezza e di noia tanti matrimoni, tanti rapporti di lavoro, tanti entusiasmi.
In bocca al lupo per il futuro, Max, e buon lavoro. 

 

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