Live Aid: 13 luglio 1985, prima che la musica cominci

Negli anni Ottanta sembra davvero tutto possibile, anche un concerto che metta insieme quasi quanto di meglio il pop può offrire e lo mostri in diretta televisiva a due miliardi di persone nel mondo. L’intenzione è quella di raccogliere soldi per combattere la carestia in Etiopia, ma alla storia passa per la sua capacità di essere specchio fedele di un decennio in cui l’innovazione nella musica inizia a venire meno. Non è una nuova Woodstock e tanto meno un’altra Monterey, il novanta per cento della musica è quella mainstream che abita le classifiche e non c’è spazio per tutto quello che il rock davvero rappresenta, cercare gli angoli, disturbare, non essere allineato. È solo un grande spettacolo che per l’occasione recupera una serie di artisti che a quarant’anni sembrano avere dato tutto, pronti a una vita agiata in una bella residenza di campagna. Si ricompongono gruppi, si riallacciano rapporti, per il bene dell’Africa. Due concerti, uno a Londra, l’altro a Philadelphia, ma ricordiamo solo il primo, per le tantissime defezioni degli artisti americani. In mezzo a tutti, tre artisti U2, Queen e David Bowie lasciano il segno. Non proprio un juke box globale, ma quasi. Il Live Aid.
13 luglio 1985 – Prima che la musica cominci
Da mesi se ne parla sui giornali. Nessuno sa davvero come sarà, ma tutti sanno che sarà qualcosa di mai visto. È sabato, il cielo è limpido sopra Londra, caldo anche a Philadelphia, e in Italia si suda. In tutto il mondo, qualcuno si sveglia con l’idea che oggi succede qualcosa. La scritta “Feed the World” domina il palco del vecchio — e mai dimenticato — stadio di Wembley. È mezzogiorno a Londra, le sette del mattino sulla costa Est degli Stati Uniti, e Bob Geldof ha appena dato il via al primo concerto globale della storia.
L’idea nasce qualche mese prima, come naturale prosecuzione dell’iniziativa benefica di “Do They Know It’s Christmas?”, a favore delle popolazioni dell’Etiopia, flagellate da una carestia senza precedenti. Geldof si mette in testa di organizzare un evento mondiale per raccogliere altri fondi. All’inizio si pensa a un unico concerto a Londra, poi le ambizioni crescono. Si valuta Channel 4, ma poi viene coinvolta la BBC; si prenota Wembley al telefono dalla Cina; si convince il sindaco di Philadelphia a mettere a disposizione il John F. Kennedy Stadium, visto che il Madison Square Garden di New York non è disponibile. Per la regia, Geldof chiama chi ha curato le Olimpiadi di Los Angeles: Michael Mitchell. L’obiettivo è trasmettere sedici ore consecutive in diretta, su due continenti, con sedici satelliti, in un mondo dove i fax sono ancora una novità e i telefoni hanno il filo.
Ma non c’è ancora un cast, e mancano poco più di cinque settimane. Non tutti vogliono esserci. Alcuni temono che i fondi non arrivino davvero a destinazione. Altri non vogliono toccare i propri tour. Altri ancora — come gli Who, i Led Zeppelin, Paul McCartney — non suonano insieme, o dal vivo, da anni. Geldof convoca una conferenza stampa a Wembley e annuncia un cartellone inventato: nomi importanti mai confermati, perfino gruppi sciolti da tempo. Dice che gli Who si riuniranno. Accadrà.
Il tempo stringe. I Dire Straits stanno suonando dodici sere di fila alla Wembley Arena, a due passi dallo stadio, ma accettano l’invito. Suoneranno nel pomeriggio, attraverseranno la piazza, e la sera saliranno sul palco “vero”. Questo convince anche gli altri. Ogni artista avrà poco più di un quarto d’ora. I biglietti vanno esauriti in pochi giorni. Lo spettacolo sarà trasmesso da MTV, ABC, Rai, BBC, VH1. In Italia parte su Rai 3, poi passa su Rai 1 all’interno di “Sotto le stelle” — con il commento affidato a Eleonora Brigliadori e Roberto D’Agostino — quindi torna su Rai 3 e finisce all’alba. Alla radio c’è RaiStereoUno.
In Italia non si è capito bene quello che sta per accadere. Il “Corriere della Sera” del 13 luglio dedica oltre una pagina e mezzo ai tour estivi di Baglioni, Teresa De Sio e ancora Baglioni, e alla “videomusica in bikini”. Solo una piccola sezione racconta l’evento che sta per cambiare la storia del pop. Si usa ancora la parola “complessi” per descrivere i gruppi in scaletta, e il nome “Live Aid” non compare mai, nemmeno nella sezione dei programmi televisivi, dove si parla di “Rockoncerto” o di concerto “Band Aid”. È un’epoca in cui la musica in tv è poca, quasi tutta in playback: tra Sanremo, Festivalbar e qualche concerto trasmesso di notte, con riprese modeste e un suono spesso inaccettabile.
A Wembley devono esserci anche Carlo e Diana, la donna più famosa del mondo, più di Madonna (la cantante). Geldof riesce a raggiungerli una sera, durante un evento del Prince’s Trust. Parla con loro, li convince. Negli Stati Uniti, intanto, Reagan è in ospedale per un’operazione e ha passato i poteri presidenziali al suo vice, George Bush senior.
La mattina del 13 luglio, gli elicotteri cominciano ad atterrare nello stadio. Gli artisti arrivano alla spicciolata. Alcuni non si parlano da anni, altri non sanno nemmeno se i loro strumenti funzioneranno. Nessuno ha potuto fare il soundcheck. C’è un meraviglioso senso di dilettantismo informale che attraversa l’intero evento, con gran parte dell’ego dei grandi nomi sgonfiato, per una volta, almeno per un giorno.
Sono tutti nervosi, tranne la band che apre. Un grammo di cocaina, mezza bottiglia di tequila, e Francis Rossi con i suoi Status Quo sono pronti a partire con una canzone che è una dichiarazione d’intenti: “Rockin’ All Over the World”, usata ovunque dalla BBC per promuovere il concerto. “Hello, are you all right?” sono le prime parole del Live Aid a Wembley. Gli Status Quo non incarnano certo il rock o il pop del 1985, ma in Inghilterra li conoscono tutti, anche chi non li sopporta. Un po’ come far aprire il Festivalbar ai Pooh con “Dammi solo un minuto”.
A un certo punto il 95% delle televisioni di tutto il mondo saranno sintonizzate su questo spettacolo. Il mondo è davvero connesso.
Le venue
Wembley è uno stadio che ha l’aria di saperla lunga. Con le sue torri gemelle bianco latte, piantate ai lati dell’ingresso principale, osserva il pubblico entrare come fosse un rito familiare. È lì dagli anni Venti, vera icona sportiva e culturale del Paese. Ha visto Coppe del Mondo e concerti rock sin dal ’72, finali di FA Cup e saluti di Churchill alla squadra durante la guerra. Dentro, il campo sembra lontano, circondato da gradinate ripide che amplificano il suono e lo rimandano indietro come un’eco. A Philadelphia, il JFK Stadium è più moderno ma molto meno mitico, una gigantesca arena all’aperto pensata per contenere folle oceaniche. Costruita su scala americana: grande, concreta, poco sentimentale. Un po’ come il Paese.
Gli artisti, la musica, le canzoni
L’ovvio serbatoio da cui attingere per il roster degli artisti è chi ha cantato in “Do They Know It’s Christmas” e “We Are The World”, con l’aggiunta di un rinforzo di nomi celebri del passato, più o meno ancora amati, per un mix di mainstream pop e restaurazione. Il contingente britannico è quasi al completo: si escludono solo i nomi palesemente inadatti per uno stadio. Ai nuovi della MTV generation (Style Council, U2, Spandau Ballet, Sade, Nik Kershaw – difficile oggi spiegare come sia stato possibile affidargli quattro pezzi) si affiancano i dominatori delle classifiche recenti a cavallo tra pop e rock (Sting, Phil Collins, Bryan Ferry, Dire Straits) e tre nomi buoni per tutte le stagioni: Queen, David Bowie e Paul McCartney.
Oltreoceano, le defezioni pesano. Le ragioni si perderanno nel tempo, tra cronaca e leggenda, ammissioni e smentite. Michael Jackson, che ha appena vinto tutto con “Thriller”, sceglie di restare fuori: dice di voler completare il nuovo progetto (“Bad” è in lavorazione), ma forse teme di non avere il controllo. Prince rifiuta di nuovo, come aveva già fatto per “We Are The World”: non è abbastanza cool per lui. Sembra abbia inviato un filmato in bianco e nero in cui pronuncia “feed the world” sdraiato nudo sul letto, poi gentilmente scartato. Ha anche mandato il video di una versione acustica di una sua canzone, “For The Tears In Your Eyes”, che sarà comunque trasmesso durante il concerto. Per farsi perdonare, pare abbia aiutato Madonna con le coreografie della sua esibizione.
Springsteen è alla fine del tour ed è molto stanco. Si è anche sposato da un paio di mesi e vuole passare un po’ di tempo con la moglie. Geldof prova a convincerlo cambiando la data dell’evento: dal 6 luglio al 13 luglio, per lasciargli un po’ di riposo dopo le tre date da tutto esaurito del “Born in the USA Tour", proprio a Wembley. Bruce declina, forse non coglie la portata dell’occasione. Lascia però in omaggio il palco che viene attrezzato in tre sezioni: una per chi si prepara alla performance, un’altra per l’artista che sta suonando e la terza per smontare l’attrezzatura di chi ha già suonato.
Billy Joel dice sì, poi il suo manager lo tira fuori: il sassofonista non è disponibile. Stevie Wonder si dice pronto, ma il suo entourage lo ritira all’ultimo, ufficialmente per ragioni discografiche, più probabilmente per la scarsa rappresentanza afroamericana nel cartellone. Paul Simon accetta, poi cambia idea dopo un litigio con il promoter americano. David Byrne sta girando “True Stories”.
Per compensare, si spostano artisti inglesi a Philadelphia: Elton John, Simple Minds, Duran Duran, Pretenders. Si tenta anche qualche reunion. Geldof dovrà aspettare Live 8 per rimettere insieme i Pink Floyd, ma intanto gli riesce con Who, CSN&Y, Black Sabbath e con il secondo Avvento — piuttosto incerto — dei Led Zeppelin. Gli Stones si esibiscono a pezzi, per le solite irriconciliabili differenze.
Pochi artisti afroamericani, poche donne, quasi nulla delle nuove musiche esplose negli anni precedenti. Gli Smiths, nonostante il recente numero uno di “Meat Is Murder”, non vengono invitati e comunque non avrebbero partecipato. Il synth pop è ridotto agli Ultravox per ovvie ragioni di vicinanza a Geldof, l’hip hop è assente, la nuova dance rappresentata solo da Madonna. Quasi tutti i protagonisti hanno già toccato il picco del successo: Duran Duran, Spandau Ballet, Nik Kershaw, lo stesso Bowie non vedranno più gli stessi piazzamenti in classifica. Alcuni, incredibile a dirsi, sono considerati culturalmente irrilevanti, come McCartney, nel punto più basso della sua creatività. Bob Dylan non se la passa meglio. Gli U2, che escono da Wembley con una vera carriera, e i Queen, che ne guadagnano una seconda, sono eccezioni.
Nonostante tutto, le canzoni che dominano l’estate del 1985 ci sono quasi tutte: i Simple Minds con “Don’t You”, i Duran Duran con “A View To A Kill”, i Dire Straits con “Money for Nothing”, Madonna con “Into the Groove”. La definizione di “Juke Box globale” sembra calzare a pennello.