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Ghost, beati sentimenti... maledettamente terreni.

L’intervista a Tobias Forge, mente, leader e Papa dei Ghost, in vista del nuovo album “Skeletá”
Ghost, beati sentimenti... maledettamente terreni.

Hanno conquistato Grammy, venduto milioni di copie, infranto record e raccolto consensi con un’immagine tutt’altro che rassicurante e un’abilità quasi diabolica, tanto da diventare una delle band più celebrate e discusse del globo. E per non farsi mancare nulla, a ogni nuova uscita discografica, presentano come frontman la figura di un nuovo misterioso pontefice cerimoniere, con tanto di volto dipinto e abito curiale, rigorosamente in nero.
D’altronde, con gli svedesi Ghost, c’è sempre da fare i conti con l’oscura luccicanza di chi è in grado di unire la potenza dell’arena rock e la serenità degli inferi. Così, in vista di una nuova fumata viola al soglio della congrega per la pubblicazione, il prossimo 25 aprile, dell’attesissimo successore di “Impera” - Numero Uno nelle chart americane, inglesi e di mezza Europa -, abbiamo incontrato Tobias Forge, mente unica del progetto e grande istrione in tutte le incarnazioni del sulfureo vocalist, per farci raccontare delle novità in arrivo.
 In un albergo dai drappi opachi nel cuore di Londra, si svela in questo modo il dialogo intimo di “Skeletá”, con l’invito a bere del buon vino e godersi il momento, perché nella vita ci sono un bel po’ di emozioni da affrontare. Tutte maledettamente terrene.

  E così è arrivato il tempo di Papa V Perpetua. Cosa puoi raccontarci?
Molto poco, perché ancora non lo conosciamo. Non sappiamo di preciso cosa succederà con lui sotto i riflettori. So solo che sarà un periodo interessante, semplicemente perché ora abbiamo due Papi, uno in carica e l’altro emerito, costretti a lavorare insieme. Uno di loro crede di essere stato declassato, mentre in realtà è stato promosso. Ma questo non significa necessariamente che sia una cosa positiva… È tutta una questione di avere uno scopo. Tutti hanno bisogno di un obiettivo e penso che questa sia una storia su come trovarlo.

Dopo aver esplorato narrazioni storiche e simboliche, il nuovo album “Skeletá” racconta ora un dialogo intimo. Cosa ti ha spinto a intraprendere questo viaggio così personale?
Ogni nuovo album è di solito una reazione o il risultato del precedente. “Impera” è stato scritto in un momento in cui mi sentivo bene, e questo traspare nel disco: la mia vita andava alla grande e l’album era ispirato a strutture grandiose, con un commento più sociale e politico. Non volevo comunque fare un secondo capitolo, avevo bisogno di qualcosa di diverso per sentirmi ispirato. Così ho fatto un disco più introspettivo, che non considera necessariamente grandi eventi mondiali, ma si concentra sugli stati d’animo e sulle emozioni di base: amore, odio, speranza, morte, rimpianto, tristezza... Volevo tornare alle vibrazioni emotive fondamentali in un unico album.

Hai parlato di un “digiuno mediatico” durante il processo creativo di “Skeletá”. In che modo questa disconnessione dal mondo esterno ha influenzato la tua scrittura?
In realtà ho consumato molti media, e penso che proprio questo mi abbia portato a scegliere una direzione opposta rispetto al passato. Poi ho deciso di staccarmi completamente dalle notizie e concentrarmi sulla mia vita e sui miei affetti, senza tormentarmi per cose che non si possono controllare. Non voglio stare seduto a sentirmi male per il fatto che non posso cambiare il mondo, ma posso cambiare certamente il mio mondo e il mio stato d’animo. Il mio lavoro come genitore è rendere migliore la vita dei miei figli e crescerli come brave persone. Il mio lavoro come artista è creare musica che ispiri le persone e le faccia sentire felici. Non sono affatto un politico, sono un intrattenitore.

Alla fine in “Skeletá”, però, c’è un senso di redenzione, non è così?
Sì, direi di sì. “Skeletá” è molto diverso da “Impera” e “Prequelle”. Mi fa piacere sentirtelo dire, perché non voglio ripetermi. Voglio sempre proporre qualcosa di nuovo. Questo album è un viaggio personale e terapeutico, forse perché sto entrando nella mia crisi di mezza età (ride, ndr). Alla fine, il messaggio è: “Se stai ascoltando, significa che sei vivo. Bevi del buon vino, vivi la vita, goditela”.

Forse fa parte del vostro sangue svedese, ma il modo in cui mescolate hard rock, pop, ganci melodici e riff contagiosi sembra essere per voi del tutto naturale. Come definiresti ora il sound dei Ghost?
Ascolto molti generi diversi e penso si percepisca. Con i Ghost non ho mai cercato di fare una cosa sola, pensando invece a una fusione di influenze. Il modo più semplice per definire i Ghost è “AOR”, cioè Adult Oriented Rock. Ben suonato, ben prodotto, ben curato. Con potenza e drammaticità, caratteristiche che ho sempre cercato di trasmettere nella mia musica.
E così anche per il mio modo di cantare. Mi piacciono molto le voci femminili, e credo che questo abbia contribuito al mio stile vocale, perché non sono un cantante metal come Rob Halford o Bruce Dickinson. Il mio approccio è più morbido, influenzato da Blondie, Eurythmics e Joni Mitchell.

I Ghost sono comunque una band sempre molto dibattuta, sia nel bene che nel male, soprattutto in ambito hard & heavy. Questo ha dato ulteriore visibilità alla vostra musica, non trovi?
Sì, assolutamente. L’immagine dei Ghost ha giocato un ruolo enorme nel nostro successo. Non credo ci sia nulla di sbagliato in questo. Sono sempre stato ispirato da band che hanno un’estetica ben definita. Anche quelle senza un travestimento particolare hanno comunque un’immagine. Persino i Pearl Jam, che sembrano non fare alcuno sforzo per apparire, hanno comunque una loro estetica. Tutto è un look, anche mostrarsi casual e spontanei.

Tassello dopo tassello, avete aumentato ogni volta di più la vostra audience, dal brano “Mary on a cross”, all’album “Impera”, fino al film-concerto “Rite Here, Rite Now”, l'evento cinematografico hard rock con il maggior incasso di sempre in Nord America. Senti la pressione come artista di realizzare un nuovo album all'altezza delle aspettative?
Sì, ovviamente. È difficile essere onesti con sé stessi. Il primo album è stato scritto senza particolari aspettative. Il secondo, invece, ne aveva molte di più per via del successo del precedente. Ero però deciso a non replicarlo, anche a rischio di perdere tutto, perché se avessi fatto un “Opus Eponymous 2”, ne avrei perso comunque in freschezza. Preferisco seguire il mio istinto. Ora, però, ho una famiglia e un team che dipendono da me, quindi la pressione è inevitabile.

 I Ghost hanno sempre avuto un approccio molto particolare alla narrazione del proprio universo. Anche questa volta sarà così?
 Ovviamente. Da quando abbiamo iniziato, ormai 15 anni fa, ho capito che per far parlare le persone servono argomenti di discussione. Così ho deciso di creare una storia attorno alla band. È come avere un mondo parallelo: c’è la storia fittizia che si collega alla realtà e aggiunge un nuovo contesto ai testi e al significato di ciò che voglio esprimere. I dischi parlano dell’esistenza umana, di crisi personali, di scopi perduti… in fondo sono tutti temi universali.

 Il 2025 dei Ghost è anche quello del ritorno dal vivo, con un tour che si preannuncia come un’esperienza ricca di sorprese. A cominciare dal divieto di utilizzo dei telefoni cellulari...
Voglio davvero che chi partecipa ai nostri show viva un’esperienza autentica. So che sono già state adottate misure simili: lo hanno fatto i Tool, Jack White e anche ai concerti di Bob Dylan ti viene chiesto di non usare il telefono.
Molti ragazzi non hanno mai vissuto nulla del genere. Durante il tour precedente, vedere così tanti telefoni accesi senza sosta mi ha disturbato al punto da farmi riflettere sul modo in cui il pubblico interagisce ora con gli artisti. Credo davvero che si possa avere un’esperienza migliore senza stare dietro uno schermo, in più i concerti sono ottime occasioni per fare nuove amicizie, basta iniziare a parlarsi di nuovo!
 Abbiamo già fatto due spettacoli con questo sistema e il feedback ricevuto è stato più che positivo. Non perché siamo la migliore band del mondo, ma perché lasciare il telefono in tasca e non poterlo usare ti permette di vivere il momento. Ti fa sentire speciale.

 Un’ultima domanda: sarai tra gli ospiti del concerto di addio dei Black Sabbath a luglio. Prova a spiegarlo al te stesso quindicenne.
È senza dubbio un grande onore, ma ha anche un sapore un po’ agrodolce. Il mio io quindicenne è sempre stato un grande fan dei Black Sabbath e non avrebbe mai immaginato di far parte di qualcosa del genere. Dal punto di vista professionale, sono davvero felice di essere stato invitato a partecipare.
Ma è anche un po’ triste, perché rappresenta davvero la fine di un’era. È comunque fantastico potersi riunire con altri artisti e amici per rendere omaggio a una band così importante per tutti. Spero davvero che sia una giornata fenomenale per Ozzy e soci. Detto questo, penso che sarà incredibile!

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