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Soul Asylum: “Non ricordiamo niente degli anni ’90. O quasi…”

Dave Pirner racconta la band, in concerto a Milano il 12 febbraio
Soul Asylum: “Non ricordiamo niente degli anni ’90. O quasi…”
Credits: Darin Kamnetz

“Standing in the sun with a popsicle everything is possible/With a lot of luck and a pretty face, and some time to waste”, cantavano i Soul Asylum in “Without a trace", nel 1992. Alla band di Dave Pirner, successe di tutto e di più”: “Runaway train”, dallo stesso album (“Grave dancers’ union”) divenne una hit mondiale grazie ad un videoclip in cui comparivamo annunci di bambini scomparsi, lui divenne una star ricercata dai media. Erano gli anni del rock su MTV e in radio: fu una congiunzione astrale irripetibile per una band arrivava dal punk e dall’hardcore.
Pirner è ormai l’unico membro della band originale, ma i Soul Asylum non hanno mai smesso di fare rock ’n’ roll: hanno da poco pubblicato un nuovo album, “Slowly But Shirley”, e il 12 febbraio suoneranno in Italia dopo un’assenza di molti anni, all’Alcatraz di Milano.

Partiamo dal titolo del vostro ultimo album “Slowly But Shirley”. A chi rimanda?
È una frase che ho visto – Shirley scritto S-U-R-E-L-Y – e ho pensato subito a un nome di donna. La prima persona a cui ho pensato è stata Shirley Temple. Ma è un gioco di parole, e si riferisce a Shirley Muldowney, pilota di drag racing.

Puoi spiegare a noi italiani che cos’è il drag racing e cosa ti ha fatto appassionare a questo sport?
Quando ero bambino collezionavo le carte del drag racing, che sono come le figurine di baseball, ma con le dragster sopra, le macchine da corsa truccate. E penso che quelle auto siano ridicole e al tempo stesso maestose. Sono sempre stato attratto dal design e dall’idea esoterica di una gara che dura pochissimo tempo.

Il drag racing era un mondo dominato dagli uomini, proprio come la musica rock, giusto?
Beh, sì.  E poi è arrivata Shirley Muldowney, a cui è dedicato il disco: ero un suo grande fan. È conosciuta come la prima donna del drag racing ed è un’eroina per me. Penso che ci sia voluto molto coraggio e molta fiducia in sé stessi per entrare in un mondo così dominato dagli uomini. Quando ha iniziato, era un club tutto al maschile.

La grafica della copertina dell’album è un riferimento sia a Elvis e sia ai Clash: a entrambi o solo a uno dei due?
Entrambi, decisamente. Quando ho preso “London Calling”, non sapevo che fosse un omaggio alla grafica di un disco di Elvis fino a molto tempo dopo. Ho pensato che fosse divertente e una buona idea grafica. Mi piacciono la grafica, il design, creare magliette, copertine di album e tutto quel mondo lì. Quindi sì, è un omaggio sia a Elvis che ai Clash.

Il disco è prodotto da Steve Jordan, che ora è il batterista degli Stones. Non è una collaborazione nuova, ma come avete lavorato insieme questa volta?
Ho mandato un paio di canzoni a Niko Bolas, che ha lavorato con Neil Young, E lui ha chiamato Steve. Era il momento giusto per provare a creare qualcosa di autentico: tra di noi c’è un’intesa particolare. So cosa vuole Steve e cerco di darglielo.

Siete in giro da 40 anni. È piuttosto comune per una band con una storia così lunga che il pubblico e i fan vogliano ascoltare soprattutto le vecchie canzoni. Come bilanci nostalgia e repertorio con i brani nuovi?
Nel set che abbiamo appena suonato a Praga c’erano otto canzoni del nuovo album, è comunque una buona dose del nuovo disco. Poi c’è così tanto materiale dei dischi precedenti che alla fine viene fuori un bel miscuglio di brani interessanti di diversi periodi.

Cosa ricordi degli anni ’90?
Niente! Scherzo…

In quel periodo avete avuto un successo mondiale, dopo aver iniziato come band punk…
Beh, la band era nata nell’81 o nell’83. Quindi ho avuto modo di vedere come si è evoluta la musica e, per me, si tratta proprio di questo. Abbiamo iniziato come una band punk, e in un certo senso è ancora una parte importante di quello che sono. Era qualcosa in cui mi sono imbattuto e con cui mi sono identificato. Stavo cercando di leggere la musica, suonare la tromba, imparare il jazz.  Poi, all’improvviso i Ramones e band simili mi hanno aperto un mondo. Più ascolti musica, più riesci a capire i pattern, il flusso, come dovrebbe evolversi… o anche no. Sicuramente un grande “o anche no”.

A cambiare tutto fu il videoclip di “Runaway Train”…
Stavamo per pubblicare il singolo e ci diedero delle cassette VHS di vari registi. È incredibile a pensarci ora, perché molti di quei registi sono poi diventati persone che hanno fatto film notevoli. Tony Kaye aveva uno showreel e pensai subito che fosse bellissimo. Così mi sedetti con Tony e parlammo. Credo fosse un pranzo, e lui fotografava tutto. Pensai: “Wow, voglio davvero lavorare con questo tipo, sembra un visionario.”
Lui tirò fuori l’idea dei cartoni del latte,  quelli con le foto dei bambini scomparsi. E iniziò a suggerire che il video potesse essere una specie di messaggio di servizio pubblico, per così dire. Qualcosa che andasse oltre il solito concetto di videoclip. Funzionò.

Negli anni ’80  Minneapolis era una delle scene musicali più vitali. C’eravate voi, gli Hüsker Dü, i Replacements e, ovviamente, Prince. Che tipo di rapporto hai oggi con la città, dal punto di vista musicale?

Mi sono trasferito a New Orleans e ho vissuto lì per 25 anni, poi sono tornato a Minneapolis e ci vivo da cinque anni. È casa mia, mio padre è ancora lì, la mia famiglia vive lì, e i miei amici pure. Ho ancora rapporti con molti musicisti degli anni ’80 e ’90, sono buoni amici. In questo momento la città è davvero fredda, ma è bellissima in primavera e in autunno. È un terreno fertile,  ci sono molti stili diversi e generi musicali differenti che stanno emergendo.
Poi è il posto da cui viene Bob Dylan, cosa che la gente dimentica spesso.

Che posto ha la musica della band nel panorama musicale attuale, molto diverso da quello in cui siete emersi?
La band per me è sempre stata viva e vitale perché lavoro costantemente sulla musica, scrivo brani e cose così. Continuo a sorprendermi del fatto che riusciamo ancora a inserirci nell’attuale panorama musicale.

Cosa possiamo aspettarci dal concerto che porterete in Italia?
Beh, ci aspettiamo di portare il meglio del rock and roll. Sto scherzando, ma non proprio. Stiamo lavorando con un sacco di materiale entusiasmante. È divertente da suonare, è potente, rumoroso, veloce ed è un set davvero variegato. Stiamo ingranando: all’inizio di un tour ci vogliono sempre alcuni giorni per entrare nel ritmo giusto, quindi penso che quando arriveremo in Italia saremo ben rodati. È una rock band di quattro elementi e spero solo che tutti si divertano. Noi ce la metteremo tutta, su questo non c’è dubbio.

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