L’Italia sa ancora osare a livello musicale?

Qualche tempo fa con una collega ci siamo ritrovati allo stesso concerto. Non è certo qualcosa di straordinario, in realtà succede spesso: tutti e due avevamo, infatti, il compito di recensire il live per i media per cui lavoriamo. Quello che è curioso è che tutti e due venivamo dall’ascolto dell’ultimo album di Mac Miller, “Balloonerism” (qui la nostra recensione), un disco vivido, fuori dagli schemi, ricco di idee, testi e curve musicali, un disco non per tutti e per questo, quando fu progettato, non capito da buona parte della discografia. Un gioiello che riconcilia con l’idea stessa di musica. Con un po’ di sconforto, pensando da quale sound magico stavamo arrivando e verso quale sound stereotipato ci stavamo dirigendo, entrando al live su cui avremmo dovuto scrivere, ci siamo domandati: ma in Italia la musica, ad alti livelli, osa ancora? Sottolineo: “ad alti livelli”. Sì, perché nel mondo underground e nel sottobosco è pieno di dischi di qualità, capaci anche di rompere degli schemi e battere strade alternative.
Ma nel mainstream? Non è proprio così. Una fotografia della staticità autorale e produttiva del nostro Paese è offerta dal Festival di Sanremo: nel 66,6% dei brani in gara alla prossima edizione del Festival della Canzone Italiana, come ha calcolato il Sole24ore, compare il nome di almeno uno di quelli che molti media hanno ribattezzato “i soliti autori”, ovvero quelli più blasonati. Venti pezzi su trenta portano la firma di almeno uno di loro. Tra questi ci sono Federica Abbate, Davide Simonetta, Davide Petrella, citato anche da Marracash nel recente brano “Power Slap” ("Ti ricordo, bimbo, chi saresti con 'sta sberla/ Senza Sanremo, senza l'estivo, senza Petrella/ È finita la pazienza"), Jacopo Ettorre e altri. Nessuno mette in dubbio la bravura di questi autori e compositori, anzi, il problema è più degli artisti: tanti, troppi, puntano sugli stessi nomi, proprio per finire sotto i riflettori dello show musicale italiano. Insomma, è un dato di fatto. E questo si riflette anche nelle canzoni, sempre più simili tra loro come fossero dei Gremlins che si moltiplicano.
È esattamente uno dei punti che ha contestato Marracash con il suo “È finita la pace”, un album che ha deciso di realizzare e scrivere interamente da sé, come contraltare a questa omologazione, con il supporto dei suoi produttori Marz e Zef. Si tratta della rivendicazione di un’identità e di un altro modo di stare dentro il mainstream, i grandi numeri, gli stadi. Una visione condivisa anche da Cesare Cremonini, che con il suo “Alaska Baby”, ha fatto lo stesso (un progetto a cui ha lavorato anche Petrella, ma come scritto, il punto non è banalmente sugli autori/compositori, ma sul come si lavora e con quale fine): cercare ancora una volta un proprio stile, possibilmente unico, riconoscibile, per stare nel mare del grande pop. Essere rilevanti, ma a proprio modo. Un atteggiamento, in Italia, da impavide mosche bianche. Eppure dall’estero, nonostante la musica del nostro Paese guardi molto al suo ombelico, arrivano messaggi di fumo rassicuranti, ma che non sembrano essere interpretati. Prendiamo, per esempio, “GNX” di Kendrick Lamar e “Debí tirar más fotos” di Bad Bunny. Il primo è un album rap che riparte dalle strade e dai nomi di Los Angeles, dalla West Coast, in cui il rapper di Compton lavora e rappa con alcune stelle emergenti della scena locale.
Un disco “per e della gente”, lo stesso identico approccio messo in campo dalla star internazionale del mondo latin, che è ripartito dalle sue radici, a Puerto Rico, unendo generazioni diverse di musicisti e plasmando un nuovo suono, incastrato tra passato, presente e futuro. Due progetti che osano, che prendono direzioni diverse dalle solite mega produzioni e dai soliti nomi. Ma soprattutto due progetti autentici, in cui si respirano le visioni e le idee creative dei due artisti. Neanche a dirlo, queste dichiarazioni di libertà sono tra i dischi più ascoltati di questi mesi. Il motivo non risiederà proprio nella loro originalità? Perfino Justin Bieber, per cercare nuova linfa vitale, è stato beccato in studio con Mk.gee, a dimostrazione di come, pure nelle alte vette del pop internazionale, ci sia fame e voglia di uscire da certi argini. L’Italia, come ha già fatto in altre occasioni della sua storia musicale, riuscirà a uscire dalla bolla?