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Jovanotti: “Mi sono chiesto: che musica faccio, adesso?”

“Il corpo umano”, la rinascita dopo un trauma, il tour: “Dal vivo come la E Street Band”: intervista
Jovanotti: “Mi sono chiesto: che musica faccio, adesso?”
Credits: Filippo Maffei

Jovanotti mostra orgoglioso la copertina del suo nuovo disco - che lo ritrae in versione “Allegro chirurgo”. Quella copertina e il titolo “Il corpo umano” sono arrivati ancora prima che le canzoni avessero una forma: il riferimento è all’incidente dell’estate 2023 che lo ha costretto a rimettere in discussione tutto: la sua musica, ma anche la sua persona e il rapporto con il suo corpo, appunto.
Oggi, diverse operazioni dopo, Jovanotti sta bene, ma ha usato le canzoni per elaborare il trauma che gli ha “portato via la cosa a cui io più tenevo”, come canta in “Montecristo”. Il risultato sono 15 canzoni per l’album più dritto e sintetico di un artista che ha sempre messo “molte vite dentro a una vita sola”, anche musicalmente, anche nel modo di farcele arrivare. Prodotto da Dardust, da Michele Canova (con cui non lavorava dal 2015) e Federico Nardelli (Gazzelle, Ligabue: è la prima volta che lavorano assieme), è comunque un caleidoscopio di generi e suoni, dal pop alla musica urban, al pop-rock alle ballate più rarefatte, che parlano di fragilità: una novità per un artista che ha sempre fatto della vitalità il suo tema principale.
Il disco è stato presentato ieri sera al Teatro Lirico Giorgio Gaber di Milano con uno show fatto di racconti, video, ascolti a tutto volume con Lorenzo che ballava sul palco, domande e un paio di brani live: "Fuorionda" in versione jazz manouche con i Four on Six (un omaggio alla Giornata della memoria) e "Grande da far paura" in versione acustica.
Rockol ha incontrato Lorenzo nei giorni scorsi per una chiacchierata sull’album, su come funzionano oggi le canzoni tra  TikTok e piattaforme, sul confronto e scontro con le nuove generazioni (“Ero percepito come una novità, e poi, a un certo punto, ho smesso di esserlo") e il tour: a marzo parte un giro nei palazzetti, che originariamente era previsto per il 2024: “Ho pensato: facciamo uno spettacolo come se fossimo la E Street Band o come se fossimo Prince and the Revolution”, dice con il suo entusiasmo - quello non è cambiato e rimane alla base di ogni cosa che fa.

“Il corpo umano” ha la forma di un album classico: è la prima volta che torni a questo formato da “Oh, vita!” del 2017. Come è nato?
Prima ancora che ci fossero le canzoni, ho pensato al titolo e alla copertina. Quasi come un’apparizione. Quindi non poteva che diventare un album. Anzi, ho lasciato fuori un sacco di pezzi già pronti o quasi: per questo, per precauzione, c’è scritto volume 1.
Per me questo è un formato familiare: sono cresciuto con l’album. Non ho fatto niente di nuovo, in realtà. Semmai ho cercato di sperimentare in altri momenti, ma questa volta è stato tutto molto naturale.

La sintesi non è mai stata una tua priorità, ma questo invece è un disco molto diretto, con le canzoni che vanno dritte al punto. Le storie, i temi dell’album richiedevano questa essenzialità?
La canzone mi aiuta in questo senso. La canzone ti impone la sintesi: è un esercizio. Poi lavorare con Dardust mi ha aiutato tantissimo. Mi ha fatto tagliare strofe con la mannaia: procedevamo proprio con il machete. Avevo pezzi con strofe infinite, e lui diceva: “No, stiamo corti, stiamo corti.” E alla fine mi sono divertito a tagliare e a dare una forma più essenziale alle canzoni.

Oggi  poi le piattaforme richiedono canzoni più corte…
Sì, guarda, io critico il fatto che adesso si facciano canzoni brevi, però poi anche io me lo aspetto. Sono un ragazzo degli anni ’80/’90, le canzoni duravano 5-6 minuti, come “Penso positivo” o “Serenata Rap”. Oggi, con quelle durate, ci fai un album intero. Alla fine, anche io vado a cercare la sintesi.

Un tema di diverse canzoni è il confronto con l’ambiente digitale, con i social media. In questa era in cui tutto è rappresentazione, come si trova credibilità nella musica?
Quando scrivi una canzone, pensi solo alla canzone. Non penso che possa diventare un meme o che sia giusta per TikTok. Quelle sono cose di cui si occupa la casa discografica.

Come affronti la scrittura, allora?
Lo faccio come sempre, nello stesso modo in cui lo facevo nel 1987: cercando una forma. Se poi 15 secondi di una canzone diventano virali su TikTok, va bene, ma quello è un altro discorso. Non cerco dei jingle dentro le canzoni, non li cerco più di quanto l'ho sempre cercati. Per una questione anagrafica proprio, io nasco con la pubblicità, quindi nasco con gli slogan, nasco con l'idea che la canzone deve avere dentro un titolo che sta scritto su una maglietta. È una cosa che ho sempre pensato, non è una novità. Le canzoni devono contenere degli slogan che puoi scorporare dalle canzoni.

È un processo automatico o è qualcosa che tieni a mente mentre scrivi?
Non è un pensiero che ha condizionato la scrittura, perché è un mio modo di stare al mondo. Sono cresciuto con le immagini, non ho una cultura letteraria, me la sono un po’ fatta nel tempo, però quello che poi nutre le mie canzoni è più una cultura visiva, più una cultura di slogan, di frasi a effetto, e quindi quello ho continuato a fare nei pezzi.

È per questo che le tue canzoni tendono a non avere una struttura narrativa, ma a procedere per immagini?
Il fatto che non riesca a essere narrativo nei pezzi è una cosa che mi dispiace in qualche modo. Quando sento “Bocca di Rosa” o “Anna e Marco”, dico: “Senti questo pezzo, è un film.” Quella cosa lì la vivo come una specie di festosa frustrazione.

Oltre che da Dardust, “Il corpo umano” è prodotto da Michele Canova e Federico Nardelli. Un ritorno e una novità.
Con Michele non lavoravo dal 2015. Avevamo fatto tantissimo insieme ed eravamo stanchi. Lui poi stava iniziando la sua avventura americana, io volevo cambiare, e così ci siamo allontanati. Ma non abbiamo mai litigato. Quando lui è tornato in Italia due anni fa, ci siamo risentiti, proprio quando mi sono fatto male. Con Michele abbiamo lavorato anche su altri pezzi forti che però sono rimasti fuori.

Tu e Dardust avevate già lavorato insieme, vero?
Sì, solo per una canzone, ma ci conosciamo da anni e ci vogliamo bene. Ho una grande stima per lui. Mi piace scrivere con musicisti come lui. Canova è più un ingegnere del suono, un produttore nel senso classico: se gli porti un pezzo già scritto, te lo porta al massimo. Dardust, invece, è un autore, un compositore.

Sono proprio due figure molto diverse, produttore e producer come si dice oggi. Con che approccio ti trovi meglio?
Con entrambi: sono due modi diversi di lavorare. Nardelli, invece, rappresenta un altro approccio ancora: più rock, più chitarristico.

Tre produttori che rappresentano le tre anime del disco: contemporanea, pop e suonata, giusto?
Esatto. Volevo tenere il piede in tutte e tre queste scarpe. Mi ero anche confrontato con altri produttori giovani, della nuova scena, e non escludo di collaborare con loro in futuro. Ma sì, queste sono le tre anime del disco.
I pezzi con Dardust sono la maggioranza: è stato il primo con cui ho iniziato a lavorare, su canzoni che sentivo più urgenti. Di solito arrivo in studio con i testi già pronti, ma questa volta ero disposto a rimettere mano a tutto, anche ai testi. Il disco è stato fatto molto in fretta: è come se la rincorsa fosse stata lunghissima, ma poi il salto brevissimo.

A proposito dei testi: il tema principale di questo album sembra essere la fragilità umana, tema che ricorre in diverse canzoni. È così?
Sì, e anche il trauma. Questo disco è una sorta di terapia. Non voglio imporre a nessuno la mia terapia, ma non volevo rimanere bloccato nel trauma: volevo vedere cosa poteva diventare.

In “La grande emozione” racconti la tua fragilità come artista.
Pensa che durava quasi dieci minuti! Ho detto a Dardust: “Registriamo tutto, poi tagliamo, come fosse un film.”

È la prima volta che affronti questo tema in maniera così aperta, vero?
Sì, perché è la prima volta che vivo questa fragilità. Non è che l’avessi rimossa prima, è proprio la prima volta che mi confronto con tanti aspetti della vita degli ultimi anni. Non ultimo il fatto di essere stato percepito come una novità, e poi, a un certo punto, non esserlo più.

Come vivi il confronto con le nuove generazioni musicali che dominano le classifiche?
La scena è completamente cambiata. Guardo le classifiche di streaming e non conosco quasi nessuno. Non riesco nemmeno a ricordare i nomi, forse per l’età o perché sono scritti con numeri e punteggiature…
Ma non è necessariamente un male. Questo mestiere si fa fino alla fine. Penso ai bluesmen, a Keith Richards, o a Nick Cave, che ha fatto un disco strepitoso.

Tutti artisti che si sono confrontati con l’età che passa…
In questo disco mi sono chiesto: “Che musica faccio, adesso?” Una volta De André disse: “Bisogna essere credibili quando scrivi canzoni.” Io pensai: “Sì, ma bisogna essere anche un po’ incredibili.” Fare qualcosa che spiazzi, che sorprenda, no?

Come hai tradotto queste idee in canzoni?
Ho cercato di dare forma alle emozioni, lavorando su atmosfere più rarefatte e non frequentatissime da me. Non mi sono vergognato del romanticismo o delle emozioni più popolari.

Da marzo sarai ne palazzetti. Come porti dal vivo questo album?
Non farò molta roba dell’album, solo 4 pezzi, ho provato: esce troppo a ridosso del tour. Voglio fare una festona, voglio far divertire la gente anche facendo cose che non facevo in Jova Beach Party, che era un rave. Farò i  grandi successi: grandi, proprio perché hanno venduto un sacco e la gente le canta. E io pure.

Cosa costruisci attorno alle canzoni?
Ah, vedrete, è fantastico, sebbene sia molto tradizionale, che è un aggettivo che non uso spesso. Prima ho pensato a mettere le passerelle e quelle cose lì. Poi ho pensato: facciamo uno spettacolo come se fossimo la E Street Band o come se fossimo Prince and the Revolution. Poi attorno succede il finimondo: l’impianto scenico è davvero figo: siamo lavorando con quelli di Tomorrowland. In realtà il tour l'ho progettato prima dell'incidente, Poi ci siamo fermati per un anno, però era già tutto un po' impostato, anche la band, che mi ha aspettato.

Una band nuova…
Siamo in 14: fiati, cori, due percussioni, batteria, Adriano Viterbini alla chitarra. Musicalmente il più bel concerto che avete mai sentito in Italia, secondo me.

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