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Farsi abbracciare dalle canzoni: un ricordo di Paolo Benvegnù

Il cantautore è scomparso improvvisamente oggi, 31 dicembre
Farsi abbracciare dalle canzoni: un ricordo di Paolo Benvegnù
Credits: Antonio Viscido

Come chiunque abbia ascoltato anche solo una sua canzone, sono sconvolto dalla morte improvvisa di Paolo Benvegnù. È stato, semplicemente, uno dei migliori cantautori che abbiamo avuto in Italia negli ultimi 30 anni. Nell'ultimo anno si era ripreso riconoscimento e visibilità, grazie allo stupendo "È inutile parlare d’amore" (Premio Tenco) e alla versione "Reloaded" di "Piccoli fragilissimi film", album che 20 anni fa segnò il suo esordio solista dopo la fine degli Scisma.  Una manciata di canzoni intime, riflessive ma mai autoreferenziali, sociali ma mai moralistiche: uno stile davvero unico, completato da concerti meravigliosi, che imbracciasse una chitarra acustica o che suonasse con la sua band. Le sue parole tra una canzone e l'altra, come le sue risposte nelle interviste, erano storie belle e disarmanti quanto le canzoni stesse.

Abbiamo intervistato Benvegnù tre volte nell’ultimo anno, quattro se consideriamo la recente conversazione su musica e salute mentale alla Milano Music Week - una chiacchierata a cuore aperto sui meccanismi di questo sistema.
L'ho ringraziato, alla fine - e non era una di quelle cose che si fanno nelle interviste: le sue parole mi erano rimaste addosso, per la schiettezza e l'intensità. Lui rispose abbracciandomi e appoggiando la sua testa sulla mia spalla - anche se non ci conoscevamo ma ci eravamo incontrati qualche volta, come chi fa questo mestiere. Un gesto spontaneo e disarmante. Come le sue canzoni, potenti e disarmanti quanto degli abbracci.

Benvegnù è sempre stato un po’ ai margini, fuori dai riflettori e dai meccanismi tradizionali della musica italiana. Come raccontano ironicamente le parole di “Canzoni brutte” – un grande brano dell'ultimo album che incarnava alla perfezione il suo spirito, quello di uno  che ha accolto la vittoria al premio Tenco dicendo: “Si saranno sbagliati”.

"Mi sono sempre domandato come fare per sbarcare il lunario
Oppormi mi è necessario alla catena produttiva, industriale e distruttiva
Così mi sono concentrato seriamente ed ho ascoltato la radio
E in un tripudio di iodio, pazienti in fila per il mare hanno canzoni da cantare (...)
Alzati che ci sta un sacco da odiare per fare musica che fa ca...
Ad esempio, ho scoperto che l'unica cosa che so fare è scrivere canzoni brutte, che possan piacere a tutti e tutte"

Un brano diretto e perfetto, con un ritornello memorabile - Benvegnù aveva un senso pazzesco della melodia: in un universo parallelo, quella canzone sarebbe stata una hit, come molte altre del suo repertorio.

Eppure era l'understatement fatto artista. Quando lo abbiamo intervistato per la ristampa di “Piccoli fragilissimi film”, ci ha raccontato che il premio Tenco è un riconoscimento non solo per lui, ma “a tutto un mondo di mezzo tra il grande cantautorato e l’indie che diventa qualcos’altro”.
Una buona parte di quel mondo, quello emerso dal rock degli anni ‘90 (Subsonica, Marlene Kuntz, Afterhours), è riuscita a passare sotto le luci del mainstream per periodi più o meno lunghi, spesso attraverso l'altra sponda sanremese opposta al Tenco, quella del Festival. Benvegnù, invece, è rimasto spesso nell’ombra, perseguendo la sua visione musicale con alterne fortune. Come ci aveva raccontato recentemente:

"Non mi preoccupo dei risultati semplicemente perché in questo paese chi fa una strada "di ricerca", non viene visto. È come se tirassi sassi nello stesso stagno da 25 anni ed è ovvio che non puoi pensare di venire pagato per fare una cosa del genere, così com'è ovvio che soltanto qualcuno che ha la tua stessa sensibilità viene a darti una carezza. Però, nonostante questo, la difficoltà nella sopravvivenza proprio fisica - questo sonnambolismo economico che ho vissuto in questi anni - quella carezza vale più di qualsiasi cosa che uno possa avere, perciò vado avanti con felicità, con una gioia incredibile, indicibile.

L'ultimo album “È inutile parlare d’amore” è stata proprio la summa di questo percorso, con melodie memorabili, arrangiamenti insieme semplici e raffinati,  testi che ti entrano dentro come una lama e una carezza. Il mio brano preferito dell’album era “Marlene Dietrich”, che ha una struttura meravigliosa con archi, piano e chitarre intrecciati, e una linea melodica ancora più straordinaria, con parole che oggi hanno un sapore ancora diverso:

“Lascia che io bruci per te, che io consumi per te
 Indelicata poesia dell’equo canone
Come Marlene Dietrich potrei liberarti oppure vendicarti
cosa puoi donarmi di te, di te”.

L’unica magra, magrissima consolazione è che, nel 2024, le sue canzoni brutte avevano finalmente avevano iniziato a ricevere il risalto che meritavano. Un risultato anche merito del lavoro dietro le quinte di chi lo stava accompagnando in questo periodo e dei colleghi che lo avevano sostenuto, che avevano collaborato con lui nei suoi ultimi progetti, in particolare nella versione “Reloaded” di “Piccoli fragilissimi film”, pubblicata lo scorso autunno. Un album che rimane una pietra miliare della musica indipendente italiana e non solo. 

Fa ancora più rabbia che sia mancato ora, perché lo avrei visto e rivisto dal vivo altre volte ancora, e sarei stato curioso e ansioso di farmi abbracciare ancora dalle sue canzoni. Cosa che continuerò a fare, ovviamente, ma con un senso di malinconia e perdita che la musica italiana non meritava.

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