Pino Daniele all'Apollo di Harlem, e altre storie. Fotogallery

Dal libro "Pino Daniele, la storia mai raccontata", di Joe Lodato e Franco Schipani, uscito per la collana Tritono di Tempesta Editore diretta da Renato Marengo, riprendiamo per gentile concessione dell'editore uno stralcio della prefazione di Franco Schipani.
Con Pino ci chiamavamo per cognome, come a scuola. Lui Schipà e io Daniè. Daniè e io abbiamo in comune Joe Lodato, che ha cambiato le nostre vite. Per sempre.
Primi anni ’70. Finito il liceo frequento la facoltà di lettere all’università, più per doveri familiari che per vocazione, e inizio a scrivere di musica su "Sound Flash", per passione. Questa rivista diventerà poi "Super Sound" e "Nuovo Sound", con Elisabetta Ponti: fighissima direttrice rock un po’ Patty Pravo e un po’ Catherine Spaak, della quale tutti noi giovani redattori eravamo segretamente innamorati.
In redazione incontro Alan Sorrenti, napoletano con mamma gallese. Diventiamo amici e mi propone di seguire il suo tour estivo. Guidavo un Ford Transit pieno di strumenti, con Tony Esposito e il resto del gruppo sui sedili posteriori, che si riposavano tra un concerto e l’altro. Erano gli anni dei Festival Rock all’aperto.
Nei momenti liberi scrivevo articoli con la mia inseparabile Olivetti. Viaggiando entravo in confidenza con grandi musicisti che, qualche anno più tardi, avrebbero scalato le classifiche: Battiato, Bennato, De Gregori, Venditti, Renato Zero, il Balletto di Bronzo, gli Osanna e tantissimi altri.
Fu questa conoscenza “on the road” che mi dette l’opportunità di intervistarli e scrivere su di loro in anteprima. La mia “carriera” e reputazione di “scoopista” se ne avvantaggiarono.
Cominciai allora a collaborare con i programmi radio musicali della Rai, e nello stesso periodo l’etichetta IT mi affidò un giovane artista alla sua prima esperienza discografica. Era Lino Rufo, con l’album "Notte chiara".
Con il produttore discografico Gianfranco Baldazzi, Giorgio Verdelli e il mitico fotografo Toni Occhiello prenotammo lo Studio Splash di Napoli, che Peppino Di Capri aveva appena inaugurato senza badare a spese. Il nostro riferimento a Napoli era Verdelli, un ragazzo già di grandissimo talento.
Grazie alle nostre conoscenze sul territorio, in studio arrivò il meglio del Napule’s Power: James Senese, Enzo Avitabile, Tony Esposito, Jenny Sorrenti, Ernesto Vitolo e gli Osanna al gran completo. Altri musicisti più o meno famosi venivano solo per il piacere di esserci. I primi perché molti loro amici erano in studio con noi, i “romani calati a Napoli”, gli altri perché speravano di farsi notare.
Tra quest’ultimi c’era Pino Daniele, che un giorno mi diede un’audiocassetta registrata alla buona a casa sua, insieme agli amici, e mi pregò di farla ascoltare ai discografici “del nord”.
I nuovi pezzi erano rivoluzionari.
Pino aveva già pubblicato "Terra mia" per la EMI, tremila copie vendute in poche settimane. Ma la casa discografica non lo aveva ristampato e non si decideva a rimandarlo in studio per il secondo LP. Lui telefonava e telefonava, ma oramai già da un
pezzo si facevano negare.
Feci sentire i nuovi pezzi a quelli della IT, a Roma e poi alla Ariston di Milano, dove un dirigente dopo averne ascoltato un paio di minuti sbottò.
"Ma, Schipani, figa!", (leggete in milanese) "Guardi che noi siamo una multinazionale. I dischi mica li vendiamo sulle bancarelle di Forcella!".
Circa un anno dopo mi richiamò. "Uè, Schipani", (leggete sempre in milanese), "non è che abbiamo ancora contatti con il Daniele? Sentendolo meglio, beh, mica male il napoletano!"
Gli risposi che i buoi erano già usciti dalla stalla.
Napoli e i napoletani mi hanno sempre portato fortuna. È grazie agli Osanna che ho conosciuto Joe Lodato: anima da musicista, sensibilità di un poeta e pelo sullo stomaco da Personal Manager.
A Joe feci ascoltare Pino Daniele, ma è una storia che vi racconterà lui stesso più avanti nel libro. E nel marzo del 1979, forte della sua presenza a New York, dopo le vicende "Stereoplay" e "Rolling Stone" edizione italiana, lascio ancora a lui il piacere di raccontarvele, mi sentii incoraggiato a lasciare l’Italia.
(...)
Cominciai a lavorare in Rai e mi andò benissimo. Scrissi documentari di successo, affiancai Isabella Rossellini nell’Altra Domenica di Renzo Arbore e feci amicizia con i mostri sacri di "Rolling Stone Magazine".
Poi decisi di produrre e presentare "Hit Parade": un programma di attualità musicale italiana in onda su cable TV in nord e sud America. E Pino era spesso ospite delle mie classifiche.
Lo rividi qualche anno più tardi allo stadio di Catanzaro: ero in vacanza da quelle parti e decisi di fargli un’improvvisata.
Fu un momento commovente.
Pino volle sapere tutto e subito di Joe, che sentiva ancora al telefono. Ma voleva informazioni di prima mano. Mi raccomandò di dirgli che lo avevo visto dal vivo in uno stadio strapieno. Cosa che feci appena tornato a New York dopo l’estate.
Joe era ovviamente felice del successo del suo compare.
Altra estate altro incontro.
Eravamo in spiaggia a Sabaudia, vicino a Roma. Pino aveva seri problemi agli occhi e il suo cuore continuava a fare le bizze. Molta gente lo salutava, ma lui non rispondeva. Non era maleducazione: era la vista che non lo aiutava, non li riconosceva.
Poi fu Pino a farmi una improvvisata a New York.
Aveva iniziato a collaborare con grossi artisti internazionali. Un giorno fece tappa a New York e si presentò a sorpresa nel mio ufficio. Chiamammo subito Joe, ma purtroppo era all’altro capo degli Stati Uniti per lavoro, con delusione di tutti.
Il 29 settembre del 2005 Pino, la sua seconda moglie Fabiola e io partimmo da Roma con destinazione New York City: doveva esibirsi all’Apollo Theatre di Harlem, il tempio della musica nera.
Il manager che aveva organizzato il concerto non aveva capito che Pino era un artista internazionale, e quindi trasformò il teatro in una piazza affollata da italo americani.
Che peccato.
Ricordo un signore ultra ottantenne afroamericano che faceva le pulizie all’Apollo dagli anni Cinquanta e aveva visto migliaia di esibizioni dal vivo. Quando Pino iniziò il suo set si bloccò e poco dopo si asciugò una lacrima. Mi disse "È blues, my friend. È grande blues... "
Joe fece di tutto per esserci, ma era dall’altre parte degli States e non poteva arrivare in tempo.
Il giorno dopo il concerto Pino mi sequestrò.
Affittammo un taxi e andammo in giro solo noi due nei negozietti del Village per comprare articoli militari usati: tute mimetiche, cannocchiali e anfibi. Pino era un collezionista seriale.
La sera gli venne voglia di pizza. Lo portai insieme al gruppo da Kestè a Bleecker Street dove Pino sentenziò che una pizza così non la facevano più nemmeno a Napoli.
I proprietari del posto, pensando di fargli piacere, misero su un suo CD, ma Pino gli chiese gentilmente di cambiare colonna sonora e di fargli ascoltare qualcosa di Gigi D’Alessio.
Era fatto così.
Ci sono momenti nella vita che ti ricordi esattamente dove eri quando è successo qualcosa di importante.
Mi ricordo dello sbarco sulla luna, le Torri Gemelle e di quando ho saputo che Pino non era più con noi.
Ero a Bleecker Street, davanti a quella pizzeria, con un caffè americano in mano e un quotidiano sotto il braccio.
E le campane di Nostra Signora di Pompei suonavano a distesa.