Gianni Morandi, l'incontro fatale con Franco Migliacci
Si trattò di un fortunatissimo inciampo. Dovettero incrociarsi una bobina e una caviglia, ma soprattutto, affinché il destino si compisse, il proprietario di quella caviglia doveva essere un tipo al quale piaceva credere nei segnali. Sono tre i protagonisti di questa storia: la voce incisa di un giovanissimo aspirante cantante, la caviglia di un autore che aveva appena sbancato nel mondo con “Nel blu dipinto di blu”, e una sala della RCA dei tempi più gloriosi, cioè quel posto che in qualsiasi altra parte del mondo sarebbe almeno un museo ma che in Italia è diventato uno scarpificio. Il racconto ce lo fa Ernesto Migliacci, figlio di Franco, autore di centinaia di successi, non solo italiani, che ci lasciò strepitosi aneddoti nella sua ultima intervista (per chi volesse leggerla https://www.rockol.it/news-741922/franco-migliacci-e-le-sue-canzoni-l-ultima-intervista). Fu lui a scoprire Morandi e a scrivere i brani più noti della sua carriera, come “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte”, “In ginocchio da te”, “Non son degno di te”, “Un mondo d’amore”, “Scende la pioggia”, “La fisarmonica”, “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones”, “Uno su mille”.
Il primo incontro fra Migliacci e Morandi?
«Attraverso una cover. In RCA il giovedì era dedicato ai provini e Franco ne ascoltava tantissimi. Gli segnalarono due emergenti interessanti, ma lui non si entusiasmò. Mentre stava lasciando la stanza, cadde a terra una bobina, gli si avvinghiò al piede e non c’era maniera di togliersela di dosso. Pensò di doverla ascoltare. Era una voce che interpretava “Non arrossire” di Giorgio Gaber, ne rimase subito colpito. Mandò a chiamare chi la cantava e gli diede appuntamento al bar della casa discografica».
Quale fu l’impatto?
«Franco stava prendendo un caffè e intravide la sagoma di Gianni attraverso la vetrata, in controluce. Gli fecero immediatamente simpatia le lunghe braccia, le grandi mani. Poi vide quella faccia allegra, il sorriso aperto, e il feeling fu immediato».
Decise di produrlo. Era un’idea nata già prima, in America.
«Franco era da poco tornato dagli Stati Uniti, con Domenico Modugno. Avevano vinto il Grammy con “Nel blu dipinto di blu” e li volevano dappertutto. Mimmo rimaneva in hotel, Franco invece girava in posti e postacci, amava perdersi. A New York s’infilò in un vicolo e capitò in una specie di palestra con centinaia di ragazzini che ballavano il rock ‘n’ roll. Scoprì i teenager, il mercato rivolto a loro, e capì che in Italia non si faceva musica per la fascia d’età fra i 13 e i 19 anni. Si mise in cerca di un ragazzino che li rappresentasse, finchè non lo trovò»
“Andavo a cento all’ora” nel 1962 fu il primo brano che Migliacci assegnò a Morandi. Facile trovarlo?
«Per niente! Chi voleva scrivere per uno sconosciuto? Nessuno. Inoltre Franco cercava per Gianni un repertorio intero, non una sola canzone. Non ha mai scritto brani a tavolino e credeva nei progetti a lungo termine. Un giorno arrivò il provino di un tale Toni Dori, si diceva fosse un italiano emigrato oltralpe per fare il minatore. Cantava: “Andavo a cento all’ora per trovar la bimba mia”, e con la voce mimava anche la parte di chitarra “blen blen blen blen blen blen blen blen”. Sembrava una canzone assurda, però rimaneva in testa. Franco chiamò Mario Cantini a suonare il piano e aggiunse parti del testo. Morandi la interpretò con una verve eccezionale».
Migliacci però si firmò con lo pseduonimo Camucia. Perché?
«Voleva firmarsi “Cortona”, dove è nata la sua famiglia, ma il nome era stato già preso, allora scelse quello del paese vicino. Non voleva essere riconoscibile. Era arcinoto per “Volare” e il progetto di Morandi doveva risultare giovane, del tutto inedito».
Da lì in poi il sodalizio fu totale. Suo padre volle seguire le tappe di Morandi come in un romanzo di formazione, e si scontrò con i vertici.
«Ennio Melis, capo della RCA, voleva che Morandi continuasse a cantare brani allegri e spensierati, ma mio padre lo vedeva crescere, insieme al suo pubblico, ed era tempo di fargli cantare il suo primo amore. Scrisse “In ginocchio da te”, Melis era contrario ma lo lasciò fare. Il brano vendette oltre un milione e mezzo di copie. Da quel momento mio padre si affacciava nell’ufficio di Melis, gli mostrava il ginocchio e correva via»
Discusse anche con Ennio Morricone.
«Gli fece rifare l’arrangiamento tre volte, ogni volta richiamando sessanta orchestrali in sala. Ennio si infuriava, ma poi lo ascoltava perchè Franco aveva un grande intuito. Quell’arrangiamento era troppo sinfonico la prima volta, poco sanguigno la seconda. Come racconta lo stesso Franco, la terza volta Morricone esplose: «Oh, più melodrammatico di così non esiste!».
Che rapporto avevano Migliacci e Morandi?
«Non dico paterno, perché Franco era Peter Pan. Semmai un rapporto fra fratello maggiore e minore, di grande affetto e stima. Franco amava l’energia di Gianni, la sua estrazione popolare e la sua autenticità».
Mi fa un esempio?
«Nel 1967 Morandi partì militare e lo rasarono a zero. Doveva però fare un servizio fotografico e Ennio Melis disse che così sembrava un pulcino, perciò fece portare sul set una serie di parrucche. Ne trovarono una perfetta, eppure negli scatti Gianni non era sorridente come al solito. A un certo punto si tolse la parrucca e urlò: “Ho giurato fedeltà allo Stato italiano: o mi fate la foto così come sono oppure non la faccio!”. Franco era lì che se la rideva. L’integrità morale li accomunava».
Insieme fondarono anche la società di edizioni MiMo, dalle iniziali dei due cognomi.
«Sì, e la prima canzone di cui furono editori s’intitolava “La bambola”. Non la voleva nessuno. Nemmeno Patty Pravo. In sala le venne detto: “Dai, prova a cantarla una volta, così te la levi dalle scatole”. E invece, buona la prima. Franco corse a casa di Gianni per fargli sentire la lacca, convinto fosse una bomba. Morandi si mostrò meno convinto, all’inizio. Era il 1968, le donne si battevano per i loro diritti, e le parole potevano essere sconvenienti, se male interpretate. Ma Franco aveva fatto un testo femminista, andava ascoltato a fondo, e avrebbe funzionato».
Poi negli anni ‘70 Morandi ebbe un tracollo.
«Aveva l’immagine del cantante carino e buono in un periodo di tempesta. La RCA cominciava a puntare sui cantautori, anche i più impegnati, e da fuori arrivava il rock. Franco propose a Gianni “Il cuore è uno zingaro” e “Che sarà”, ma lui non accettò. Passò un decennio difficile».
Non collaborarono più fino al 1985. Morandi stava per uscire con un nuovo disco, quasi chiuso. Cosa successe?
«In quel periodo si riavvicinarono, c’era una convergenza di esperienze di vita. Andammo a vedere Morandi in concerto al campo di calcio di Mentana e il suo impresario disse: “Perché non rifate qualcosa insieme?”. L’occasione si presentò quando Franco ricevette una musica di Roberto Fia. Gli venne l’idea del testo di “Uno su mille”. Lui, che era stonatissimo, la canticchiò cinque o sei volte a Gianni, nel nostro salone. Gli sembrò un pezzo potente. Gianni, che aveva uno dei primi telefoni trasportabili, con la valigetta, chiamò in studio e disse: “Fermate la copertina del disco perché il nuovo titolo sarà “Uno su mille”».
Lei era presente?
«No, io la sentii in macchina, forse con mio fratello Francesco e mia sorella Laura. Gianni ci prese all’uscita di scuola a Roma e ci portò a casa a Mentana. Abitavamo a cento metri di distanza. Per tutto il tragitto non fece che mandare indietro la cassetta e cantare il brano a squarciagola. Il disco doveva ancora uscire».
Migliacci aveva pensato alla crisi di Morandi per il testo?
«È la storia di entrambi. “Se sei a terra, non strisciare mai” era un incoraggiamento per chiunque, ma riguardava innanzitutto loro: due instancabili, il cui riscatto personale passava per il lavoro. Un lavoro che prendevano seriamente. Ecco perchè Franco scrisse la frase: “Tu non sai che peso ha questa musica leggera”».
Come reagì suo padre quando il pezzo esordì?
«”Uno su mille” fu presentato a “Fantastico” e Pippo Baudo disse a Morandi: “Adesso prenditi l’applauso del tuo pubblico”. Un applauso scrosciante. Era la sua “My Way”, vera, cantata con i pugni, con tutta la forza. Mio padre provò una gioia immensa, per se stesso e per un amico fraterno che tornava a vendere tantissimo, dopo anni di buio. Come diceva sempre Franco: “Quel che resta sono le canzoni”».
E Morandi cosa disse a Migliacci?
«Che la prima volta lo aveva fatto nascere. La seconda, rinascere».