Angela Baraldi: “Spesso ci si crede liberi, ma si è in fila”

Angela Baraldi sembra un personaggio western di un romanzo di Cormac McCarthy, di quegli imperscrutabili che in terre desolate e tempi incerti, azzanna la vita tutte le volte che può, con ogni mezzo. Cinema, teatro, musica: salta, portando luce, da un mondo all’altro. È un animale artistico impossibile da addomesticare, nel bene e nel male, come spiega anche lei. In questi mesi ha accompagnato Francesco De Gregori in tour, facendo da apertura ai live, proprio come all’inizio del suo percorso. Sta lavorando a un nuovo album che uscirà il prossimo anno, ulteriore tassello di una carriera che in realtà sono tante compresse in una in cui trovano spazio monologhi, film, serie tv, grande cantautorato, band, rock indipendente e un’insaziabile sete di libertà.
Dopo aver aperto i suoi concerti per la prima volta nel 1993, è tornata per un’altra tournée sul palco di Francesco De Gregori, accompagnandolo nelle varie date. C’è un filo rosso che collega i due momenti?
È qualche cosa di molto significativo, non avrei mai immaginato che sarebbe successo ancora. Questo mestiere è anche fatto così, di intrecci, di scambi di musiche. A questo giro tutto è nato perché stavo e sto lavorando a un disco nuovo, Francesco ha sentito il materiale che avevo cominciato a registrare nel 2022, il riallacciamento di rapporti è partito così, dalla musica. Nei suoi confronti ho sempre avuto una grande stima, che è ricambiata. Siamo partiti con grande entusiasmo per questo tour, ricordando come andò anche quello di allora, è stato una sorta di ritorno al futuro perché anche tanti anni fa, a farci incontrare e allacciare un rapporto, furono le canzoni.
La chiamò lui?
Ci fu una richiesta da parte del suo entourage: mi chiamò il suo braccio destro perché avevo fatto il passaggio sanremese con un pezzo ("A piedi nudi", 1993, ndr) che vinse il Premio della Critica. Mi venne spiegato che, insomma, a De Gregori piacque. E così mi venne proposto di aprire i suoi concerti con il gruppo che avevo ai tempi.
In quel primo tour c’era il gruppo ad accompagnarla, a questo giro solo la chitarra di Federico Fantuz. Inoltre avete presentato degli inediti. Le piace il fattore sorpresa?
Sì, ero più “in mutande”. Cantare canzoni che non sono ancora uscite è gratificante, il pubblico, in questi casi, ha un livello di ascolto diverso. Con queste performance, chitarra e voce, con inediti, volevo mettermi a nudo. È proprio una cosa d'altri tempi, non allineata con quello che succede adesso, dove tutto è meno selvaggio, più studiato. Oggi il pubblico va ai concerti e sa già quello che accadrà, io ho cercato di sorprendere.
Con Francesco De Gregori, in questo tour, avete cantato insieme “Anidride Solforosa” di Lucio Dalla, un brano che avevate già interpretato nel 1993.
Il testo è del poeta Roberto Roversi, musicato da Dalla. È stato bello ricantarlo dopo tanti anni. Ricordo che un giorno, guardando Rai Storia, mi imbattei in un documentario sui giovani italiani che partivano e arrivavano in India negli anni 70: venne fatta una domanda a una ragazza romagnola. Le chiesero: “che ci fai tu qui?”. Lei rispose: “Sono andata via perché rimanere sempre a Faenza non è che mi interessasse troppo”. Che è esattamente l'inizio del brano. Il documentario era antecedente all’uscita del pezzo (1975, ndr). Questo fa capire la poetica di Roversi, così legata al contemporaneo e allo stesso modo di essere senza tempo.
Oggi qualche cosa è cambiato?
La poetica di Roversi, di De Gregori, di Dalla e di tanti che hanno fatto la storia partiva, secondo me, da un punto di vista diverso. Scrivevano di “altri”, oggi invece nelle canzoni c’è tanto “io”. Per carità, è interessante anche questo approccio, ci sono tanti cantautori bravi a sviluppare questo punto di vista, ma il racconto in musica in terza persona secondo me è più interessante perché ci si mette a lato e si osserva, e questo fa sì che alcune canzoni, in cui tutti possono rivedersi, siano eterne.
Nel 1990 uscì il suo primo album, “Viva”, prodotto proprio da Lucio Dalla. Chi è stato per lei?
In quel disco c’è anche la sua voce nella canzone “Preghiera”. Sono stata molto fortunata a incontrare lui e De Gregori nel mio percorso. Sono stati incontri che non ho cercato, sono capitati, ma è vero che bisogna essere nel posto giusto al momento giusto. L'amicizia con Lucio è stata veramente speciale, molto profonda. Fu una persona “difficile da prendere” perché con lui lo stampino dovevi buttarlo via, non era mai allineato. Aveva delle qualità umane che andavano al di là della sua figura da rockstar. Mi sorprese il suo rapporto con la fama: ne era travolto, ma ha sempre mantenuto un rapporto sano e umano con il pubblico. Era ironico, leggero, non tracciava quella distanza, che oggi creano in molti, tra lui e chi amava la sua musica. Anche in questo era un vero trasgressivo perché non era pieno di sé.
Oggigiorno chi sono i trasgressivi?
La parola “trasgressione” oggi è diventata conforme, si è trasgressivi tutti nello stesso modo, questa è la mia impressione. Molti artisti credono di essere liberi, di fare quello che vogliono, ma in una visione un po’ distopica, mi sembra che siano in fila. A volte pensi di essere unico, ma sei semplicemente in fila.
Ha collaborato con il grande cantautorato e anche con il mondo rock indipendente. È attrice di cinema e teatro. Assecondare la sua anima poliedrica le ha procurato dei vantaggi o no?
Viaggiare dalla musica al cinema fino al teatro, a volte mi ha portato a delle eclissi perché sono passata da un progetto all’altro senza dare continuità a un campo solo. Però per me questo è un successo individuale, soggettivo senz’altro, non oggettivo, non di classifica. Non ho mai battuto il ferro solo su un punto, ma questo fa parte della mia natura. Oggi è un lusso potersi permettere di fare quello che si vuole, con chi si vuole. Io non riuscirei a rinunciare a uno dei due lati, quello della cantante o dell’attrice, che permette di mettersi nei panni degli altri. È un atto di libertà, che senz’altro si paga sotto altri punti di vista. Capisco che questo discorso possa non essere riconosciuto dalla gente. Non voglio sembrare spocchiosa…
In che senso?
Credo che la sensibilità nei confronti della verità sia importante. Non c'è spocchia nel lavorare cercando di colmare le proprie ansie, le proprie paure, le proprie debolezze, o anche la voglia di condivisione. E ognuno trova il “suo” modo per farlo, io il mio l’ho trovato e non è solo uno.
Nel 2008 lei fu protagonista di “Quo vadis baby?”: fu la prima produzione originale di Sky con forti componenti musicali. Fu una miniserie troppo avanti per i tempi?
È stata pionieristica, ai tempi non c'era neanche il reparto scrittura, le sceneggiature sono state perfezionate mentre giravamo. Quando le produzioni sono così grosse, di solito le sceneggiature sono blindate, fu veramente un esperimento ante-litteram. Tracciò la strada. Tempo dopo uscì “Romanzo criminale” che ebbe un successo pazzesco. Ricordo che, al ristorante, con Gabriele Salvatores (la serie si ispira al film omonimo diretto da Salvatores, ndr) parlavamo proprio di questo. Lui diceva: “Vedrai che avremo un successo duraturo”. E io invece ribattevo: “Secondo me l’Italia si innamorerà di più della storia di un gruppo di delinquenti che di quella di una donna rude, libera e che dice le parolacce”. I pionieri, a volte, vengono seppelliti da ciò che arriva dopo.
Lei ha contribuito anche alla riscoperta delle canzoni dei Joy Division in Italia con un progetto musicale ad hoc. Come andò?
Tra il 2010 e il 2011 a Reggio Emilia mi chiesero di realizzare un tributo ai Joy Division per ricordare “Unknown Pleasures”. Inoltre Peter Hook (il bassista della band, ndr) era a Reggio. La performance avrebbe coinciso con la riapertura del Museo di Storia Naturale che era chiuso da tanto. In un primo momento chiamai Gianni Maroccolo che però non poteva, allora parlai con Giorgio Canali che mi disse: “facciamolo, ma togliamo bassi o batteria”, ovvero gli strumenti fulcro del sound del gruppo. Voleva proprio uscire dalle sicurezze. Ebbe ragione perché con quell’approccio, che poi portammo a lungo in tour fino alla pandemia, si mettevano ancora di più in fortissimo risalto le parole.
Che cosa hanno rappresentato?
Ian Curtis, con quello sguardo e con quel corpo diafano, ha introdotto nel rock il grande tema del disagio e della depressione, e lo ha fatto in anni in cui il genere era muscoloso e testosteronico. Lui e la sua band hanno cambiato la storia.
È stata anche la voce di alcuni tour dei CCCP e del CSI, prima del ritorno di Giovanni Lindo Ferretti, che ha decretato la reunion dei primi. Che esperienza fu?
Fu importante per tenere vive le canzoni, permettendo ad alcune generazioni successive di conoscerle. Fu Massimo Zamboni a volermi in squadra, ci mise in contatto un regista teatrale. Mi sono divertita da morire e ancora oggi in tanti ricordano quei tour, non pensavo avessero lasciato così tanto il segno pur sapendo che il repertorio era di grande spessore. Il pubblico dei CCCP e dei CSI è quasi religioso, io mi sentivo un ripetitore, ero felice, ma non volevo strafare. Ne ho anche parlato con Giovanni Lindo Ferretti quando ci siamo poi conosciuti…
Ferretti come la prese?
Mi ha sgridato. Mi disse: “Non sei mai venuta a parlarmi di questa avventura”. Io non lo feci perché ero convinta di stargli sulle palle. Lui in realtà, mi ha raccontato, che se fossi andata a salutarlo, avremmo potuto mettere in piedi una scenetta che lui si immaginava da tempo. Lui voleva che io salissi sul palco, in un data concordata, senza dirlo agli altri componenti, e dicessi: “stasera abbiamo un ospite: come ho cantato le canzoni dei CCCP io, può farlo anche lui…”. E sarebbe salito sul palco, lasciando di pietra la band e tutto il pubblico, lui, Giovanni. Quando me lo raccontò scoppiammo a ridere, sarebbe stato bellissimo e magari avrebbe anticipato la reunion che poi effettivamente c’è stata.
Sta chiudendo un nuovo album, l’ultimo è “Tornano sempre” del 2017. Che progetto sarà?
Me lo sono prodotto da sola con il solo ausilio e l'aiuto di poche persone che ho scelto con molta cura. Mi sono messa in una posizione di libertà creativa che all’inizio mi ha portato a lavorare un po’ a braccio, senza avere una direzione precisa, sperimentando. Alla fine sono venute fuori delle canzoni che non riesco a dire se siano rock o non rock, ho cercato di liberarmi da tutte quelle che sono le sovrastrutture e le aspettative. Mi sono presa il lusso di sorprendere o magari anche di deludere chi mi segue, agli artisti che ho amato è successo anche questo. Però, ecco, quando si tira fuori qualche cosa di autentico credo che questo, al di là di tutto, venga percepito. Mi sento gratificata da queste canzoni, come ho detto all’inizio la musica selvaggia, che prova a non stare dentro i recinti, è quella che davvero mi fa stare bene.