Vince Tempera: “Le mie sigle non erano per bambini”

“Goldrake”, “Actarus”, “George e Mildred”, “Anna dai capelli rossi”, “Capitan Harlock”, “Remi” e molti altri, tra cui soprattutto “Ufo Robot”, sono titoli che fanno sobbalzare i “boomers” dicendo poco alle generazioni successive. Si tratta di sigle di cartoni animati di provenienza giapponese che spopolavano a fine anni ’70 primi ’80, capisaldi di un ridotto palinsesto televisivo che ancora aveva lo strascico della “tv dei ragazzi” e che apparivano sul piccolo schermo in un contesto televisivo con un’offerta di programmi condensata. Ma cos’hanno in comune queste sigle (specifiche per le versioni italiane)? Dietro di loro si nasconde un grande musicista, un poliedrico artista e compositore che in vita sua ha saputo spaziare tra campi differenti: Vince Tempera.
Il milanese Tempera nasce negli anni ’70 come musicista progressive (ne “Il volo”, no, non il trio melodico) per poi aprire questa parentesi come compositore ma passando nel tempo anche attraverso la lunga collaborazione con Francesco Guccini, salendo innumerevoli volte sul palco di Sanremo come direttore d’orchestra, producendo tanti artisti e componendo per molti altri e lavorando anche come talent scout.
Una lunga e prestigiosa carriera in cui la scrittura delle sigle ha un posto di rilievo. Canzoni che i diversamente giovani potranno cantare e che sono raccolte in un album dal titolo “Le più belle sigle TV” che ripercorrono quegli anni televisivi ricordo dell’infanzia/adolescenza.
Tra le tante cose che hai fatto come sei arrivato alle sigle e le colonne sonore dei cartoni animati?
E’ stata una casualità. Io e Luigi Albertelli (autore scomparso nel 2012). Eravamo alla Fonit Cetra in attesa di Renato Pareti, un cantautore che stavamo producendo, che era in ritardo di due ore. Mentre eravamo in attesa la Rai da Roma chiama il direttore artistico chiedendo se avevano qualcuno da mandare alla Rai di Milano a vedere un cartone animato giapponese, che un mese dopo doveva andare in onda e dovevano trovare una sigla in italiano. Io e Luigi andiamo a vedere questo filmato e devo dirti che lo abbiamo visto in lingua giapponese, con il sistema NTSC che la Rai non aveva neanche le macchine adatte, quindi in un modo pessimo e abbiamo capito di cosa si trattava, grazie anche al fatto che io sono un collezionista di fantascienza. Era Ufo Robot. Ci siamo presi del tempo e alla fine è nata quella sigla. Era il 1978.
A cosa vi siete ispirati?
La canzone non voleva essere per bambini ma una cosa da adulti, da mamme, non da Zecchino d’oro, voleva essere moderna, più attuale. Era appena uscito il film "Rocky" nella cui colonna sonora c’era una brass band, con il commento delle trombe e con questa idea scrivemmo la canzone in 5 minuti. L’ispirazione di Albertelli fu immediata, con il “mangiare i libri di cibernetica e le insalate di matematica”: un testo che aveva una sua logica illogica, cosa che ai tempi non esisteva. È per queste intuizioni, ed altro, che Luigi secondo me, con Mogol, rimane un grandissimo paroliere
Quel brano e le altre sigle hanno avuto un grande successo.
Il mercato musicale per i bambini non era così forte all'epoca, però io e Luigi pensavamo che il bambino guardasse il cartone con la mamma di fianco e la mamma ha il borsellino. Abbiamo fatto più di 5 milioni di dischi, eravamo ricoperti d’oro e con noi guadagnavano un sacco di aziende.
Hai accennato che quello di queste sigle non doveva essere un linguaggio per i bambini. Quindi qual era la formula vincente per queste canzoni?
Siamo partiti dai testi, scritti da Albertelli, che lavorava in pubblicità mentre io ero abituato a scrivere al di fuori di quella che era la canzone d'amore. Mi rendevo conto che tutto doveva includere dei cori e quindi componevo in tonalità adatte ai cori. Perché il cantato e il ritmo sono gli elementi fondamentali per rendere una canzone popolare e di successo. Quindi unendo musiche giuste e parole accattivanti hai, ancora oggi, un brano vincente, con le parole da cantare e il ritmo da ballare. L’idea non era comunque quella di fare un pezzo difficile, non doveva certo essere Wagner, ma pochi accordi immediati e significativi.
Le tue sigle, o vostre con Albertelli, sono molto correlate con il periodo in cui sono uscite. Dal punto di vista musicale risentono molto dell’atmosfera di quegli anni.
Dopo la scrittura facevo degli arrangiamenti in base ai tempi e alla musica che girava attorno. Eppure sono ancora canzoni attuali, magari con la cassa in quattro, cose che ascolti ancora oggi. Sono state le prime canzoni per bambini (che poi non lo erano) portate in discoteca.
Qualcuno potrebbe considerare il lavoro sulle sigle come, in senso artistico, di “serie b”. È così anche per te, oppure hanno una loro credibilità?
È un tema che ho affrontato diverse volte. Quando lavoravo con Guccini ero sempre presentato come quello di “Ufo Robot” e altre, peraltro canzoni con cui la figlia di Francesco è cresciuta, a cui regalavo i 45 giri. Guccini si stupiva e diceva che tutti mi conoscevano per quelle cose e lui che aveva scritto più di 200 brani era meno famoso. A parte questo, quando la Disney faceva le colonne sonore chiamava sempre grandi artisti, è così ancora adesso eppure non c’è nessun problema se succede. Basti pensare poi a Henry Mancini. Cosa si ricorda di lui? La musica de “La pantera rosa”, eppure lui è un grandissimo compositore. Infine per alcune persone, anche famose o manager, che hanno 45/50 anni c'è un prima e un dopo “Ufo Robot” o “Goldrake” e altri personaggi dei cartoni. Spesso nei film viene dimenticato l’attore o il protagonista ma più difficilmente la musica che identifica un film. La musica è importante, la cosa più importante di tutte, perché riempie e identifica ogni spazio, dai telegiornali a ogni momento della giornata. Insomma il grande orgoglio che avevamo io e Luigi (Albertelli) non era il numero di dischi venduti, ma che i bambini ricordassero le nostre canzoni e che nel tempo, quei bambini cresciuti, lo facciano ancora.
Le rifaresti ancora le sigle?
Adesso ne ho una in uscita, quella de “I Ronfi”, per Rai Yoyo, un fumetto di Adriano Carnevali che arriva da “Il corriere dei Piccoli” dove è stato pubblicato dall’81 al ‘95. Vedo però in Italia poca attenzione ai bambini. Se giri in Europa, soprattutto nel nord, ti accorgi che tutto ruota intorno a loro, che hanno una grande attenzione e importanza. Da noi la RAI mette i cartoni su Yo Yo che fai una grande fatica a trovare sul telecomando, magari la mattina mentre devi portare i bambini a scuola. Mediaset, dove hanno capito questa cosa, dalle 6 alle 8,30 programmano i cartoni animati, su Italia1, un canale che trovi subito sul telecomando. A parte questo, in primavera partirà la prima serie de “I Ronfi”, sono 26 puntate. Il programma è prodotto in Italia ed è già venduto in 7 paesi europei ed anche in Turchia e ora è arrivato pure da noi. Per la parte testuale collaboro con Michele Serra, un autore che lavora per la Radio Svizzera (omonimo del giornalista Michele Serra) la cui sorella è stata la direttrice di Linus.
In questo periodo però hai anche un altro progetto…
Sì, con I Musici, quelli che hanno suonato con Guccini. Siamo usciti questa estate con un disco che s’intitola “Ronin”. I ronin erano i samurai che avevano perso il padrone ed erano liberi di offrire i propri servigi a chiunque; da quando Francesco non canta più noi siamo così. È un disco molto particolare perché ci sono 5 racconti in prima persona di Francesco su come sono nate certe canzoni e poi ci sono le nostre versioni di una serie di brani del cantautore emiliano.
La frase “dirige l’orchestra il Maestro Vince Tempera” è risuonata parecchie volte dal palco del teatro Ariston di Sanremo, raggiungendo milioni di persone. Alla luce della tua lunga frequentazione del Festival cosa ne pensi delle ultime edizioni?
Lo vedo in un modo positivo. Non voglio morire sentendo sempre gli stessi nomi ma anche qualcosa di nuovo; quindi va bene che arrivino questi giovani. Va bene musicalmente ma non va bene come si giudica il consenso. Si dice: “Ma questo ha fatto tre milioni di like o di ascolti” e lo trovo un po’ ridicolo. Sono numeri che non costruiscono nulla anche a livello economico e d’indotto, oggi con il rap non si crea niente. Se tu guardi bene adesso tutto si regge sul live. Vasco Rossi non è nelle parti alte della classifica eppure fa grandi numeri live. Ligabue: il disco non sta andando bene eppure riempie i concerti. A Sanremo la discografia non ha più un grande peso, raccolgono i frutti di altri, dei manager. Se guardi ci sono molti artisti indipendenti e il peso è spostato sui management più che sulle case discografiche. I primi hanno un maggior peso contrattuale dei secondi.