Rockol30

Motta: “Il mio nuovo disco manda affanculo i tre precedenti”

Ne “La musica è finita” il cantautore trova “una nuova adolescenza”. L’intervista.
Motta: “Il mio nuovo disco manda affanculo i tre precedenti”
Credits: Pepsy Romanoff

Francesco Motta ha una concezione del punk tutta sua: non è ovviamente estetica, ma di sostanza e di idee che poi diventano reali. Non vuole ripetersi, ama mettersi in difficoltà e strappare le proprie convinzioni, aprendosi a nuove influenze. Il dito medio non è verso il prossimo, ma verso se stesso. “La musica è finita”, il suo nuovo progetto in studio, prodotto insieme a Tommaso Colliva, uscirà il 27 ottobre, ed è un concentrato di pop, canzone d’autore e rock filtrato attraverso una nuova lente. È un album in cui l’artista si apre per la prima volta a collaborazioni inedite e sposta la visuale di scrittura. Per sperimentare sempre di più, Motta ha deciso per l’occasione di chiamare amici e colleghi come Willie Peyote, Giovanni Truppi, Jeremiah Fraites e Ginevra. Già dal titolo si comprende come questo progetto metta un punto per ripartire, sempre ponendo al centro la musica. Il titolo, infatti, non è un urlo pessimista, ma un’esclamazione per decretare il termine di un processo di lavorazione e l’inizio di quella che, per il cantautore, è la vera “partita” da giocare: i live, che inizieranno il 27 ottobre da Livorno.

In questo disco c’è una fine, ma c’è anche un inizio. Mi racconti questi estremi?
“Devo ringraziare un momento di fragilità. A un certo punto della mia carriera tutto quello che stavo facendo era sotto i riflettori, era un tempo pieno di complimenti e pacche sulle spalle. Poi quelle pacche sono venute meno e ho vissuto un periodo difficile. Ed è lì che ho chiuso con certi pensieri e mi sono incontrato di nuovo con la musica, perché mi sono rimesso in gioco e ho ascoltato tutti, anche quelli che non dovevo ascoltare. Ho ritrovato un centro, un nuovo inizio. Il tutto con più consapevolezza rispetto a prima”.

Perché parli di un “nuovo inizio” musicale?
“Quando un artista realizza il primo disco c’è un’ovvia violenza nel dire certe cose, per questo gli ascoltatori amano i primi dischi. Il secondo disco è senz’altro difficilissimo, ma ti assicuro che il terzo lo è di più e il quarto ancora di più. Questo perché devi riuscire a ricreare quel certo tipo di violenza e forza iniziale senza manierismi facili, figli di tutto ciò che ha funzionato in passato. E l’unico modo per riuscirci, per me, è ripartire da una zona scomoda. Io credo, con questo disco, di essermi buttato di testa dentro quella zona”.

“Alice” parla di tua sorella. È molto personale, ma hai voluto con te nella traccia anche Giovanni Truppi, una delle collaborazioni. Aprirti agli altri ti ha salvato dal rischio di ripeterti?
“Nelle mie canzoni ho spesso messo in mezzo i miei genitori, mia sorella e in generale la mia famiglia, il brano ‘Mio padre era comunista’ è un esempio. Ma qui c’è un passaggio ulteriore: faccio i nomi. Rendo esplicito tutto, seguendo una verità, anche scomoda. Non l'avevo mai fatto. Giovanni l’ho conosciuto tanti anni fa, facevo il turnista per lui in tour, conosce bene me, conosce bene i miei genitori. C’è stato uno scambio incredibile di mail tra mia madre e Giovanni, che forse un giorno incornicerò (sorride, ndr). Per me è stato necessario aprirmi agli altri, spostare la telecamera della narrazione. Anche questo è un fattore inedito per me e mi è servito per trovare nuove strade e rompere l’idea che la musica si potesse fare solo in certi modi”.

Ogni canzone di questo album è una fotografia a sé e ci sono tanti elementi sonori: da un certo uso del pianoforte a un’elettronica diversa dal passato, passando per strumenti nuovi.
“C’è sempre stata, in tutti i miei dischi, l’idea di cercare un lido in cui non sentirmi al sicuro. Sì, ci sono tanti elementi nuovi, però allo stesso tempo ce ne sono altri che io do quasi per scontati, ma che forse non lo sono: un certo tipo di progressioni armoniche e la presenza di Mauro Refosco, ormai parte integrante del mio modo di approcciarmi all’elettronica e all’acustico, sono segmenti riconoscibili. L’utilizzo di strumenti diversi è un punto centrale: con Tommaso Colliva abbiamo cercato di non ripeterci e di offrire a ogni canzone un suono nuovo. Prendi ‘Alice’ e ‘Se non avessi avuto te’: sono molto diverse. Credo che questa ricerca sul sound mi abbia portato anche verso un modo di scrivere più comprensibile, non sono stato bulimico”.

Un tempo dicevi che la musica serviva a salvarsi da quello che abbiamo intorno. Oggi la fai per salvarti da te stesso?
“Io credo di aver messo proprio un punto su certe dinamiche. I primi tre dischi si parlano, mentre quest’ultimo li manda affanculo. Con ‘La musica è finita’ ho ritrovato delle convinzioni che in ‘Semplice’ non c’erano ed era forse inevitabile. In quel periodo c’era la pandemia, non potevo confrontarmi con gli altri. Usciti da quel tunnel, ho ascoltato le voci di chi mi consigliava ‘fai questo, fai quest’altro’, ne ho fatto tesoro, ma in certi frangenti non ho capito più nulla. E così sono ripartito da zero. Questo perché se io non riesco a fare la musica che voglio non dormo la notte, se non riesco a fare la musica che voglio e sento dentro di me, preferisco non fare un album. In ‘La musica è finita’ c’è una nuova adolescenza, che mi ha salvato”.

Un esempio reale e concreto?
“Non sono stanco. Ogni volta che finisco un disco, sono stremato. A sto giro sono pieno di energie, non vedo l’ora di suonarlo e spiegarlo”.

Se c’è un elemento che non è mai cambiato nel tuo percorso, quello è l’attenzione alla dimensione live.
“Io so che le canzoni che scrivo me le devo portare dietro, per questo lavoro già pensando al live. Nel libro ‘Vivere la musica” racconto i problemi che esistono nel suo insegnamento: quando un bambino di sette anni è costretto a fare quegli esercizi al pianoforte, che con il tempo poi gli faranno passare la voglia di suonare, si percepisce come non ci sia un modo tangibile per capire che con la musica ci si può divertire. Quel bambino, a quell’età, non vuole immaginare la partita, ma vuole giocarla. Ed è per questo che in molti mollano tutto e si dedicano al calcio. Ecco, io ogni volta che finisco un disco, sento che sto per giocare la partita, ovvero fare live. Voglio arrivarci preparato e allenato e voglio far sì che quando avrò 50-60 anni non perderò la voglia di cantare pezzi come ‘La fine dei vent’anni’”.

Sul palco si può mentire?
“Io credo che, al netto delle luci, delle scenografie e delle basi sotto, se si mente il pubblico prima o poi se ne accorgerà. Io lo sento, a un concerto, se qualcuno su quel palco mi sta prendendo per il culo. Per questo motivo io faccio live da musicista, circondandomi di grandi musicisti, perché non voglio prendere in giro nessuno. Fare un concerto porta con sé delle responsabilità”. 

Schede:
La fotografia dell'articolo è pubblicata non integralmente. Link all'immagine originale

© 2025 Riproduzione riservata. Rockol.com S.r.l.
Policy uso immagini

Rockol

  • Utilizza solo immagini e fotografie rese disponibili a fini promozionali (“for press use”) da case discografiche, agenti di artisti e uffici stampa.
  • Usa le immagini per finalità di critica ed esercizio del diritto di cronaca, in modalità degradata conforme alle prescrizioni della legge sul diritto d'autore, utilizzate ad esclusivo corredo dei propri contenuti informativi.
  • Accetta solo fotografie non esclusive, destinate a utilizzo su testate e, in generale, quelle libere da diritti.
  • Pubblica immagini fotografiche dal vivo concesse in utilizzo da fotografi dei quali viene riportato il copyright.
  • È disponibile a corrispondere all'avente diritto un equo compenso in caso di pubblicazione di fotografie il cui autore sia, all'atto della pubblicazione, ignoto.

Segnalazioni

Vogliate segnalarci immediatamente la eventuali presenza di immagini non rientranti nelle fattispecie di cui sopra, per una nostra rapida valutazione e, ove confermato l’improprio utilizzo, per una immediata rimozione.