La musica cinematografica dei Dead Can Dance
A metà degli anni Ottanta imparammo a conoscere un gruppo che veniva da Melbourne, in Australia. Si facevano chiamare Dead Can Dance. Dopo l'omonimo primo album del 1984 rimasero in due: Lisa Gerrard (che oggi compie 62 anni) e Brendan Perry. La band lavorò con continuità fino al 1998, poi lo scioglimento. Nel nuovo millennio si sono succedute un paio di reunion, l'ultimo album da loro inciso, "Dionysus", risale al 2018. Vogliamo però porre la vostra attenzione sul penultimo album del duo della terra dei canguri, "Anastasis" del 2012. Quella che trovate a seguire è la recensione di quel disco realizzata per noi da Alfredo Marziano.
Dodici anni di silenzio discografico, per un gruppo "pop", equivalevano un tempo a un esilio senza ritorno. Non oggi, che l'assenza prolungata è diventata un plusvalore su cui giocarsi il ritorno sulle scene trasformandolo in "evento". Tanto più se si tratta di un marchio esoterico come quello dei Dead Can Dance, di per sé già estraneo alle logiche della musica di consumo e dello sfruttamento intensivo. I due titolari, Brendan Perry e Lisa Gerrard avevano preso strade diverse (anche in senso geografico: lui in Irlanda, lei nella natìa Australia), e con esiti differenti: grazie a "Il gladiatore" e a "Now we are free" la Gerrard è diventata una voce se non un nome di pubblico dominio, finendo addirittura in prime time televisivo a reclamizzare una marca di merendine.
Qualche sacrilego la scambiò allora per Enya e questo è il rischio latente che corrono talvolta i "nuovi" Dead Can Dance, quantomeno quando si esprimono in sala di incisione e con un disco come "Anastasis": non troppo distante da quello "Spirit chaser" del 1996 a cui eravamo fermi, per certe atmosfere ai bordi dell'ambient e il ricorso frequente a griglie ritmiche insistenti e squadrate. Non sono più avventurosi e inquietanti come ai tempi dei primissimi dischi per la 4AD, anche se la loro musica per immagini (che con la cinematografia ha da sempre una parentela stretta) e il canto spiegato dei due - Perry ha un timbro roco e profondissimo, Lisa una vocalità libera e virtuosistica resa ancora più ammaliante dall'uso di una lingua immaginaria e misteriosa - sono sempre un magnete irresistibile per le orecchie.
"Children of the sun", in verità, è un incipit abbastanza sorprendente, con sprazzi di luce estranei al codice classico DCD che illuminano uomini e donne "con i girasoli tra i capelli". Musica ariosa, melodia statuaria e comunicativa, ma chi immaginava un inatteso omaggio ai figli dei fiori e alla Woodstock generation si metta il cuore in pace: qui si parla di una razza antica come il sole e che ha origini dall'oceano, i richiami sono a un passato non prossimo ma remoto. Il resto suona più familiare, una sequenza di affreschi panoramici pennellati su ballate di sei-otto minuti dall'incedere ieratico e solenne (e forse non è un caso che l'home studio di Perry in cui questa musica è stata registrata sia una chiesa sconsacrata); mentre di (relativamente) nuovo ci sono alcuni colori strumentali e arrangiamenti densi di archi e di fiati usati a mo' di contrappunto o di sottolineatura.
Nel classico sincretismo musicale dei Dead Can Dance, da sempre abili miscelatori di musica "world" ed europea, sacra e tribale, classica e folk, è sempre più insistente lo sguardo rivolto al Mediterraneo e alle porte d'Oriente, Grecia, Turchia e Nord Africa, come il titolo del disco - "Anastasis" è una parola greca che significa resurrezione, ma anche "ciò che sta nel mezzo" - faceva presagire.
Perry e Gerrard si spartiscono democraticamente la leadership del gruppo intrecciando solo raramente le loro voci: quando accade, come in "Return of the she-king", l'effetto è assicurato e quel brano, aperto da sonorità folk irlandesi che Perry ha concepito come addio all'Isola Verde che ha nel sangue e dove ha risieduto per tanti anni, diventa immediatamente uno dei punti alti del disco.
Per il resto, i due procedono preferibilmente su binari paralleli: in "All in a good time" Brendan si libra a gola spiegata su nuvole di suono sospese sul nulla, in "Opium" intona una litania sul desiderio di fuga, in "Amnesia" sfoga tutto il suo spleen riflettando sulla labilità della memoria ("i ricordi cadono dagli alberi/Amnesia/i ricordi sono come foglie d'autunno"). Gerrard risponde con "Agape", "Kiko", "Anabasis": ed è di volta in volta un'incantatrice di serpenti, l'officiante di un oscuro rito religioso tra i solismi di strumenti a corda, un muezzin in preghiera di fronte a una piana anatolica tra i rintocchi squillanti di un dulcimer e quelli squassanti di un gong.
Suscitano più ammirazione e rispetto che commozione, però. E i veri brividi, la vera magia, arriveranno probabilmente con il ritorno in palcoscenico: la gente lo sa, e per questo le loro date autunnali (Arcimboldi di Milano incluso) sono andate esaurite in un batter d'occhio.