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I Baustelle, "Elvis" e le stelle cadenti

Francesco Bianconi scrive per Rockol e racconta il nuovo album della band
I Baustelle, "Elvis" e le stelle cadenti
Credits: Fabio Treves

Dopo lo stop forzato del COVID e dopo la parentesi che io Rachele ci siamo presi per dedicarci rispettivamente ai nostri dischi solisti, l’esigenza di tornare alla “banda Baustelle” è venuta abbastanza naturalmente, come una sorta di chiamata dall’alto. Evidentemente avevamo voglia di tornare in una versione rumorosa ed elettrificata, rock per per dirla con una parola semplice; e per tornare rock la formula migliore era per l’appunto quella di tornare come band, perciò con una rifondazione dei Baustelle.

La nascita di "Elvis"

Ma “Elvis” nasce molto prima: ricordo di aver deciso che il prossimo disco dei Baustelle si sarebbe intitolato così già nel periodo in cui stavamo realizzando “L’amore e la violenza vol. 1”.
Mi trovavo a Napoli, imbottigliato nel traffico di una bretella autostradale. Davanti a me c'era una vecchia BMW, eravamo fermi e io vedevo solo il retro dell’automobile e il proseguire dell’autostrada, e in lontananza, meraviglioso e scuro, il profilo del Vesuvio. Ho scattato una foto col cellulare e mi sono detto “Questa potrebbe essere la copertina del prossimo disco dei Baustelle, che sarà pieno di chitarre elettriche, si chiamerà “Elvis” e lo registreremo a Napoli”. A conti fatti si è avverato quasi tutto, tranne la registrazione a Napoli. 

Elvis è storicamente colui che ha inventato il rock and roll, o perlomeno quello che lo ha reso disponibile al mondo intero, togliendolo dai ghetti. Noi non abbiamo forse fatto un disco rock and roll ma sicuramente un album di canzoni timbricamente molto orientate verso un sound americano legato alle forme del blues; e non era mai successo prima che i Baustelle facessero un'incursione nella musica americana a questi livelli. Per cui intitolarlo “Elvis”, simbolicamente e visione di Napoli a parte, ci stava. Il nostro “Elvis” è un disco che è radicalmente legato alla musica americana rimasticata durante l'inizio degli anni ’70 in Inghilterra o altrove; ad esempio ci sono riferimenti al glam rock, a David Bowie, ai T. Rex. Volevamo qualcosa che suonasse come il Lou Reed di “Transformer” o come i Rolling Stones del 1973. Più che il vero Elvis in queste nuove canzoni ci sono certi suoi epigoni.  

Metaforicamente poi, quando penso a Elvis non posso fare a meno di richiamare alla mente la sua fase decadente: per cui me lo figuro a Las Vegas costretto a suonare, disperato e depresso: quell’Elvis è anche simbolo e sintesi del declino della vita umana. E il nostro disco è in effetti un po’ una carrellata di ritratti di esseri umani colti nel momento della loro caduta. Stelle cadenti: questo siamo in fondo, tutti noi.

Una nuova immagine per i Baustelle

il ritorno sulle scene ha significato per noi anche una riflessione sulla nostra immagine. Da quando siamo nati come band abbiamo sempre ritenuto che l'immagine fosse fondamentale. Viviamo naturalmente e con fluidità il passaggio dalle scene alla vita privata, per cui quello che mostriamo quando ci esibiamo rispecchia alla perfezione anche quello che siamo per strada, non c'è trasformismo. Avendo optato con “Elvis” per un cambio di rotta così netto in termini di sonorità, abbiamo però pensato che stavolta dovevamo farci aiutare da qualcuno. Qualcuno che ci aiutasse a essere noi, quello che siamo sempre stati da soli, ma con un’immagine nuova e più a fuoco. Abbiamo perciò cercato un Art Director, e lo abbiamo felicemente trovato nella persona di Gian Luca Fracassi. L’obiettivo era quello di ridisegnare l’estetica Baustelle senza stravolgerla o snaturarla e Gian Luca ha lavorato di elisione, togliendo alcuni elementi ma mantenendo i Baustelle sempre coerenti rispetto alla loro immagine costitutiva.

Gian Luca è stato abile nel rendere minimale quello che già c’era, come già emerge dal progetto grafico della copertina, per cui ha voluto coinvolgere il fotografo Marco Cella, che viene dal mondo della moda, il quale  ha curato anche la regia del video di “Contro il mondo”. Nell’artwork ad esempio, Gian Luca e Marco sono stati secondo me bravissimi perché sono riusciti a rendere minimale e iconica un’immagine semplice: un pezzo di me, un pezzo del mio busto, in jeans e t-shirt. Mi fa ridere, e molto piacere insieme, che la cover del nostro disco più rock richiami un poco quella di “Sticky Fingers” dei Rolling Stones, uno dei miei album preferiti di sempre. 

Un lavoro di squadra

Sono molto felice infine che Elvis sia il risultato di un grande lavoro di squadra: ci siamo dati la regola di scrivere le canzoni organizzando delle sessioni in studio con i musicisti. Per questa nostra inedita avventura rock volevamo che contribuissero dei musicisti scelti ad hoc; non avevamo bisogno di turnisti. volevamo fondare una nuova band fatta di persone che sapessero tutto ad esempio dei “dischi-reference” ai quali volevamo abbeverarci: Alberto Bazzoli, Milo Scaglioni, Julie Ant, Lorenzo Fornabaio sono stati fondamentali perché hanno accompagnato me Rachele e Claudio da subito nelle sessioni di scrittura in studio. Ivan Rossi, il nostro ingegnere del suono, è stato altrettanto importante nel registrare e dirigere i lavori in studio, che abbiamo realizzato principalmente al Blackstar e alle Officine Meccaniche di Milano. Anche a partire dal suo processo di realizzazione, “Elvis” è sicuramente il disco più comunitario che abbiamo mai fatto: racconta storie amare perché amara è la vita dell'uomo in un momento storico come questo, ma allo stesso tempo comunica una voglia di comunione come mai ci era successo prima d’ora. E ci fa stare bene.
It’s sweet soul music.

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