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Dream Syndicate, padrini del rock chitarristico indipendente

La band capitanata da Steve Wynn scioltasi a fine anni Ottanta si è riformata una decina di anni fa
Dream Syndicate, padrini del rock chitarristico indipendente

I Dream Syndicate, che bella band. Senza dubbio alcuno tra le migliori del rock alternativo degli anni Ottanta. Poi accadde che come una Cenerentola californiana la formazione tolse il disturbo prima che scoccassero gli anni Novanta. Parecchi anni più tardi, nel 2012, il gruppo si riunì e da allora ha pubblicato quattro album, l'ultimo dei quali, "Ultraviolet Battle Hymns and True Confessions" nel giugno dello scorso anno. Oggi il frontman del gruppo, Steve Wynn, compie 63 anni. Oggi in suo onore riascoltiamo l'ultimo disco della sua band e leggiamo le nostre righe a commento.

I Dream Syndicate hanno fatto i conti con il passato. Anzi, con questo album, il presente pareggia: quattro album nella fase storica, quella del "Paisley underground" tra il 1982 e 1989, e quattro album dalla reunion degli ultimi anni. Certo, un capolavoro ("The day of wine and roses", 1982) rimane inarrivabile, ma i Dream Sydicate sono di quei rari casi di ritorno non nostalgico anzi, con una qualità pari a quella originale e una vitalità creativa anche superiore: "Ultraviolet battle hymns and true confessions" ne è la dimostrazione. Anzi porta quasi il presente in vantaggio: una band in evoluzione, che non ha nessuna intenzione di fermarsi.

Ne è passato di tempo dal rock che univa California e costa est, i Velvet Underground con la psichedelia californiana. Oggi Steve Wynn è un losangelino trapiantato a New York, ma che guarda anche altrove, dopo una quantità enorme di esperienze soliste e varie collaborazioni. La band è stata riformata 10 anni fa per quella che sembrava la solita reunion autocelebrativa, per i 30 anni di "The days of wine and roses". Poi è ripartito tutto con un'altra marcia, e che marcia: 3 dischi in 3 anni. Nel 2017 e 2019  "How did I find myself here?" e "These times", in cui ridefiniscono il sound classico della band, le chitarre che si intrecciano in canzoni rock pressoché perfette, con qualche lunga sperimentazione, come ai vecchi tempi. Il chitarrista Jason Victor poteva essere il punto debole, invece la sintonia con Wynn è perfetta e porta a "The Universe Inside", uscito in piena pandemia: un album fatto di lunghe jam, 5 brani più che canzoni, che compongono un'unica lunga suite con elementi elettronici: il krautrock si unisce alla matrice americana e l'entrata in pianta stabile di Chris Cacavas (Green On Red, già in tour con il gruppo), si sente.

Il nuovo album sposta ancora la traiettoria, riunendola con una sintesi perfetta a quelli dei dischi precedenti: "Where I'll stand" si apre con un sintetizzatore in loop, poi entrano le chitarre e vengono i brividi, per gli amanti di questo classic rock che più classico non si può: 10 canzoni, una sola che sfiora i 6 minuti ("Beyond control") un paio attorno ai 5 minuti, le altre più compatte: suonano come i Dream Syndicate, i padrini di molto rock chitarristico indipendente contemporaneo, ma suonano anche diversi dal passato. "Trying to get over" sembra un omaggio ai tempi di "The days of wine and roses", ma subito dopo arriva "Lesson number one", che si apre con un sax e prosegue in maniera quasi circolare, con bizzare lezioni - confessioni: sono quelle del titolo, forse? 

Non è chiaro cosa siano gli "inni da battaglia ultravioletti" citati sempre nel titolo, ma se sono questi ci piacciono eccome. Bentornati, un'altra volta.

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