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I Maneskin e la critica USA: il commento di Ernesto Assante

Analisi e contestazione della stroncatura di "Pitchfork"
I Maneskin e la critica USA: il commento di Ernesto Assante

Prima di leggere le righe che seguono devo dire una cosa: non amo scrivere di chi scrive, penso sia sempre legittimo avere opinioni diverse, criticare la critica è un esercizio deprimente, che viene praticato spesso e volentieri da giornalisti che per motivi loro sono repressi e si sfogano così. Ma in questo caso, ovvero la recensione di Jeremy D. Larson, firma di punta di Pitchfork, dell’ultimo album dei Maneskin, era difficile tacere e non provare a scrivere di chi scrive. Quindi…

Permettetemi però una introduzione che credo sia necessaria: l’impero della musica angloamericana è entrato, come era naturale che fosse, in una fase di declino. Sarà lenta ma sarà inesorabile, le piattaforme globali hanno liberato energie immense che arrivano da ogni parte del mondo e educheranno le generazioni future ad ascoltare musica che arriva da quelle che un tempo erano le periferie dell’impero angloamericano della musica popolare, con risultati che saranno, per noi del secolo scorso, sorprendenti, ma per chi è nato e vive in questo secolo del tutto normali. E questa chiave di lettura è fondamentale per comprendere il fenomeno Maneskin nella sua completezza. In questo scenario l’autorevolezza di Pitchfork è del tutto pari all’autorevolezza che ha il sito dal quale state leggendo queste righe, Rockol conta quanto Pitchfork nel nuovo universo, le loro parole pesano come le nostre, quello che scrivono non è oro colato e il luogo fisico in cui vivono i giornalisti di Pitchfork (come quelli di Rolling Stone USA o del New Musical Express o di Les Inrockuptibles o di Mojo, tanto per essere chiari) non li pone su un piedistallo rispetto a chi scrive da Roma, città che non avrà una grande storia rock alle spalle ma che oggi, per quello che si può ascoltare e vedere attraverso le piattaforme, non pone i suoi abitanti in una condizione molto diversa da chi vive a Seattle o a Johannesburg. E non stiamo parlando di me, vecchio e bacucco, ma di un ragazzo di venti anni, che può crescere musicalmente nella stessa maniera di un ragazzo londinese. Il ragazzo romano non vedrà dal vivo lo stesso numero di band che circolano a Londra, ma ne vedrà abbastanza con i concerti che ci sono in città, e vedrà e ascolterà attraverso Internet la stessa identica musica degli altri ragazzi di ogni parte del mondo. Questa è la situazione oggi, per la quale mi permetto di questionare l’autorevolezza odierna di Pitchfork nella materia. Jeremy D. Larson, secondo voi, ascolta più musica di quella che ascolta un recensore, collaboratore o redattore di Rockol? La risposta è semplice e inequivocabile: no. Quindi…

Detto questo, Jeremy D. Larson ha ragione: messo nella prospettiva della storia del rock l’album dei Maneskin, musicalmente, parlando, non è un capolavoro. Ma, ci sia consentito dirlo, nella prospettiva della storia del rock, tutta intera, è ben difficile oggi trovare dei capolavori. Però da qui a definire il disco dei Maneskin ‘terribile in ogni senso’ ce ne vuole. Anzi, citando il pezzo di Pitchfork in maniera letterale, è un album ‘vocalmente stridente, liricamente privo di fantasia e musicalmente unidimensionale. È un album rock che suona peggio quanto più lo suoni forte’. Esattamente quello che io scriverei, ancora oggi, se dovessi recensire, secondo i miei personalissimi gusti, un album dei Guns N’Roses degli anni Novanta, band che Pitchfork tratta con riverenza, ma che, a parte la visione generazionale di chi con la loro musica è cresciuto, messa nella prospettiva della storia del rock produceva musica “vocalmente stridente, liricamente priva di fantasia e musicalmente unidimensionale” e degli album rock che suonavano peggio quanto più li suonavi forte. Considero tutt’ora la loro versione di “Knockin On Heaven’s Door” un insulto. Eppure i Guns hanno avuto davvero la loro importanza nei loro anni, hanno rappresentato per molti, senza dubbio alcuno, il rock. E altrettanto si potrebbe dire di molti altri artisti prima e dopo di loro, che hanno incarnato il rock per la loro generazione, con tutti i limiti del tempo e del caso, e con qualità musicali diverse. E altrettanto si potrebbe dire dei Maneskin.

Andiamo con ordine: Larson alla quinta riga del suo pezzo segnala, come motivo principale del successo della band italiana, il fatto che per gli ascoltatori rappresentano un’alternativa. Quindi, retoricamente, si chiede ‘alternativi a cosa?’. Alternativi a Beyoncé, per dirne una, il cui album Pitchfork ha giustamente lodato, segnalandolo come il miglior album dell’anno, ma che suona in maniera decisamente diversa da quello dei Maneskin. Alternativi a Sudan Archives, la violinista seconda nella lista dei migliori album del 2022, che essendo, come dicono loro, un “kaleidoscopic blend of house, R&B, pop, and hip-hop” suona decisamente diversa. Ma anche alternativi a Alvvays, Rosalia, Bad Bunny, e molti altri dei primi dieci della loro classifica. Gli unici con cui un paragone è ragionevole farlo sono gli Special Interest, che musicalmente sono rock, post punk, hanno un un messaggio inclusivo, due donne nella band, e sono fuori dal mainstream senza ombra di dubbio. Ma la cui distanza dai Maneskin è assai limitata. Vale la pena ricordare, cosa che Larson non può sapere perché ovviamente non frequenta la musica italiana,  che i Maneskin, vi piacciano o meno, nel nostro paese sono alternativi a Mengoni, alla Pausini, a Tiziano Ferro, a Emma Marrone, a Fedez (cito a caso), ma anche a Lazza, Rkomi, Mahmood, Calcutta, Madame, ai rapper e trapper di ogni ordine e grado. Sono alternativi perché la loro musica e la loro immagine è diversa, completamente diversa, da quella degli altri, perché diversi sono anche i loro testi, perché diverso è il loro modo di stare sul palco e perché, cosa da non sottovalutare, non cercano di essere famosi e ascoltati nell’universo del rock alternativo italiano (che già definire universo è estremamente esagerato) ma per scelta hanno puntato a raggiungere il pubblico più ampio possibile, attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Sono veramente ‘diversi da loro’ e questo, anche se non vi piacciono i Maneskin, è difficilmente confutabile. Larson giudica quella dei Maneskin una ‘pantomima’, sostiene che il pubblico che li ascolta e che scopre in loro una cosa ‘rara e potente’ assecondi un bisogno inconscio di qualcos’altro, lasciandosi convincere da “un atteggiamento lascivo che non sembra né cool né popolare, e quindi si oppone a ciò che è cool o popolare”, ma che si sbagliano perché i Maneskin sono ‘finti’, perché non sono vestiti Gucci ma vestiti “da Gucci. Cosa che per il critico di Pitchfork è irrilevante, ovviamente, nel caso di Beyoncé, anzi nel suo caso è ragionevole perché lei non è ‘alternativa’ e non suona rock. C’è un'etica rock, dunque, ci dice Larson, che va rispettata, e tradirla, fare una pantomima, è reato. Sempre considerando che noi, vecchi rockettari, abbiamo sempre amato le pantomime di Bowie o di Alice Cooper o di migliaia di altri artisti rock. E attenzione, prima di scatenare le proteste di chi legge, non sto facendo paragoni ‘qualitativi’ tra i Maneskin, Bowie, e nemmeno Alice Cooper.

Va bene, lasciamo perdere Pitchfork, è chiaro che a Larson non sono piaciuti e probabilmente non piaceranno mai. E a me, piacciono? Se dovessi rispondere al volo direi ‘naturalmente si’. Nell’opprimente panorama musicale italiano nel quale siamo stati immersi fino al 2015 circa, la loro apparizione nel 2017 mi è sembrata luminosa, divertente, sfacciata, ‘alternativa’. E in brevissimo tempo hanno catalizzato, in Italia prima e nel mondo poi, esattamente quello che Larson indica, ovvero il bisogno per qualcosa, qualsiasi cosa, sia fuori dal mainstream. Un mainstream che ingloba un sacco di apparenti ‘alternative’, sessuali, politiche, di linguaggio, di suono, ma tutte in qualche modo comprese nel ‘grande flusso’ per il quale è accettabile qualsiasi cosa. Ma, dirà qualcuno, non sono ‘accettabili’ anche i Maneskin? Non hanno vinto Sanremo o l’Eurovision Song Contest? Più mainstream di così? Certo, anche i Maneskin sono ‘accettabili’, e lo sanno per primi, perché hanno scelto di esserlo partecipando ai ‘contest’ di cui sopra. Partecipando a X Factor, a Sanremo, all’Eurovision, hanno accettato il sistema, sono ospiti di Mara Venier o del TG1, sono parte del circo. Ma è proprio per questo, perché hanno accettato il sistema e si sono resi visibili, che hanno ottenuto il loro meritato successo. Ed è per lo stesso motivo che all’ultimo Sanremo c’erano anche i Baustelle, lo scorso anno Giovanni Truppi, citandone solo due a caso tra i molti che hanno fatto la stessa scelta. Con la differenza che i Maneskin hanno vinto e questa è una ‘colpa’ imperdonabile per tutti i tetragoni difensori della purezza del rock.

E il disco? Diciamolo, è un buon disco di rock, non un capolavoro, ma un buon disco di rock, realizzato da quattro ventenni che improvvisamente si sono trovati a suonare nel centro esatto del mondo. E hanno fatto il disco che volevano fare, con la musica che volevano fare. No, questo forse non è esattissimo, perché a scrivere molti dei brani non sono stati solo loro, ma i quattro hanno avuto l’aiuto di altri autori. Ed è questo il problema dell’album, per il quale Larson ha agio di parlare di ‘pantomima’. Accanto a quelli dei quattro compaiono i nomi di tantissimi autori che con il ‘diverso da loro’ hanno poco a che fare, che sono immersi completamente nei mainstream. Soprattutto (perché ha avuto anche compiti di produzione oltre che di scrittura), Max Martin, passato alla storia per “I want it that way” dei Backstreet Boys e per “Baby one more time” di Britney Spears, non esattamente un pedigree rock. E’ una colpa? No, ma la loro collaborazione giustifica chi, come Larson, pensa che quella dei Maneskin sia tutta una ‘pantomima’. Ed è difficile capire perché i ragazzi si siano affidati a loro. Ma le canzoni sono brutte? No, tendenzialmente no, anche se, ed è evidente fin dal primo ascolto, i brani migliori, soprattutto “Kool kids” e “La fine”, sono quelli scritti dai quattro senza aiuti ‘esterni’. Se un difetto lo vogliamo trovare è che sono ‘elementari’, ma nell’intera storia del rock essere ‘elementari’ non è mai stato un difetto sostanziale; al contrario in molti casi è un segnale di ‘autenticità’ e, se ci è concesso dirlo, in questo caso è il segno della ‘resistenza’ dei Maneskin all’intervento degli altri autori pop. Che, a conti fatti, nulla aggiungono (semmai tolgono) alla proposta della band romana. Sono elementari nel suono, che però è esattamente il loro mondo, fatto di strumenti all’unisono, di riff brevi e di cassa battente, dell’ossessione per lo ‘stop and go’, che è una costante anche eccessiva nel loro repertorio. Ma questa elementarietà li rende comprensibili, li rende simili a chi ascolta. Che è, né più né meno, quello che fanno il rap, o la trap, che hanno ridotto la musica alla radice minima e non vengono criticati per questo. Mettiamola meglio: la musica di oggi è elementare, in alcuni casi estremi addirittura non c’è, la semplificazione assoluta è un segno di contemporaneità e questo rende il rock dei Maneskin un linguaggio accettabile per i ventenni che lo suonano e per chi lo ascolta, perché è credibilmente contemporaneo. Essere semplici e immediati, diretti e comprensibili, riconoscibili e non sofisticati, è esattamente quello che fanno i ragazzi in ogni parte del mondo, è la porta d’ingresso più facile al mondo della musica. E non è reato.

L’album, tra alti e bassi, si lascia ascoltare con piacere e, mi scusi Larson per la precisazione, ad alto volume suona meglio, è a basso volume che non suona. Avrebbero potuto dare di meglio o di più? Si, certo, ma magari avrebbero potuto dare di peggio e meno. Non lo sapremo mai, di certo sappiamo che sono cresciuti, sappiamo che sono andati avanti, che hanno convinto ragazzi di mezzo mondo che quello che fanno è buono e giusto. Speriamo che sappiano che non c’è meccanismo di marketing o promozione che possa garantirgli di essere ancora un fenomeno planetario. Mentre la musica di certo può garantire loro un futuro.

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