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Depeche Mode, guida agli album (dal peggiore al migliore?)

Un ripasso in attesa del nuovo "Memento mori" e dell'esibizione di stasera a Sanremo
Depeche Mode, guida agli album (dal peggiore al migliore?)

Non è impresa troppo agevole stilare una classifica degli album da studio "dal peggiore al migliore", in particolare se si parla di una formazione così importante e longeva come i Depeche Mode. Per questo si è qui cercato di rimanere il più possibile aderenti all'oggettività, mettendo al centro l'importanza di quegli stessi album (che attualmente, escludendo l'imminente uscita di 'Memento Mori', restano quattordici) anche e soprattutto per ciò che concerne l'evoluzione dell'offerta musicale e stilistica del gruppo (formatosi nel 1980 a Basildon, città dell'area inglese dell'Essex). A voi i commenti.

 

 

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14. A BROKEN FRAME (1982)

Dopo il già considerevole successo, perdipiù inatteso, dell'animoso debutto 'Speak & Spell', Vince Clarke, uno dei membri fondatori dei Depeche Mode, rassegnò le dimissioni formando il fortunato duo synth-pop Yazoo (noti come Yaz in America) assieme con la talentuosa cantante Alison Moyet. Fu lì che Martin Gore, una delle figure centrali dei Depeche, cominciò a impugnare le redini della scrittura dei brani. Co-prodotto insieme al loro mentore e boss-label Daniel Miller, della Mute Records, il secondo atto del gruppo resta complessivamente una prova sonora abbastanza virtuosa, come parimenti lo dimostra la suggestione che il concept della copertina curata da Brian Griffin sa suscitare. "Leave In Silence" e il resto della tracklist, fra cui il synth robotico che impregna passaggi sonori quali "My Secret Garden", "Monument" e "Nothing To Fear", garantiscono un ascolto che suona molto meno datato del summenzionato debutto. Poi certo, è molto probabile che nessuno, tra le file dei fan (ma mai dire mai, in fondo), sia pronto a eleggerlo come il miglior disco del gruppo, e di certo il sound un pizzico puerile di "A Photograph Of You" non mieterà molte vittime. Resta però il fatto che nel suo piccolo, 'A Broken Frame' bene incarna quella fase passeggera da cui partirà la svolta verso i lidi di gloria dei dischi successivi.

 

 

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13. SPIRIT (2017)

"Stiamo tornando indietro, all'età della pietra", canta con franchezza il frontman Dave Gahan nel brano in apertura, "Going Backwards". Difficile contraddirlo, del resto. Gran parte dell'ispirazione alla base di 'Spirit', in linea temporale il quattordicesimo lavoro del gruppo, ha a che vedere con la crescente insofferenza per il clima politico internazionale, con un occhio in particolare agli Stati Uniti e alla madre patria della band, l'Inghilterra. In un'intervista con “Vevo”, sempre Gahan aveva dichiarato: "Siamo davvero sconvolti per quello che sta succedendo nel mondo". Queste preoccupazioni si riflettono anche nella traccia successiva, "Where's The Revolution", mentre la più sconsolata "The Worst Crime" si apre al nefasto tema del global warming e della distruzione ambientale operata dall'uomo. Parte della critica non ha apprezzato queste prese di posizioni politico-sociali, ritenendole non confacenti a un gruppo come i Depeche, ma nella realtà l'impianto lirico di 'Spirit' non fa che denotare una visione generale da apprezzare nel suo risultare adulta e raziocinante. La cura dei suoni è eccelsa e i brani, si vedano ad esempio "Cover Me", "Eternal" o "So Much Love", sono ben lontani dall'apparire fiacchi come qualcuno si è sentito di desumere. Non fa una piega, in questo senso, il lavoro dell'indaffarato James Ford, membro di Simian Mobile Disco e Last Shadow Puppets (nonché attivissimo come producer - fra gli altri anche per Arctic Monkeys e Florence & The Machine). Strano, poi, come il brano "No More (This Is The Last Time)" sembri profetizzare dal titolo l'addio a un membro del nucleo storico del gruppo, Andy "Fletch" Fletcher, tristemente scomparso nel maggio 2022 e di cui 'Spirit' reca in sé l'atto finale come membro dei Depeche Mode.

 

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12. DELTA MACHINE (2013)

A livello tematico questo disco, il tredicesimo, riflette con precisione un punto di vista personale che ancora una volta, come in molti degli episodi musicali afferenti al gruppo, è quello di Martin Gore. Il discreto brano di apertura, "Welcome To My World" ne è una prova, ma Gore lo aveva in realtà apertamente dichiarato, all'epoca, di sentirsi molto più in pace con se stesso e anche molto meglio fisicamente parlando, dopo la liberazione definitiva dai problemi con l'alcol. Musicalmente, 'Delta Machine' si innesta sul giusto equilibrio tra suoni elettronici (da notare l'uso di sintetizzatori modulari) e quella manifattura sinteticamente blues che era già propria di un pezzo come "Personal Jesus". Niente di superfluo in "Soothe My Soul" o "Should Be Higher", ma resta un po' congelata l'idea di innovazione che tanto soleva animare Gore e gli altri in tempi più remoti. Una nota a parte la merita tuttavia la splendida "Heaven". Scritta interamente al pianoforte, la traccia segue una linea melodica (che ricorda quella di "Glory Box" dei Portishead) su cui Dave Gahan organizza una delle sue migliori performance di sempre (quasi lambendo la gloria, in termini di estensione vocale, da lui raggiunta su "Condemnation", da 'Songs Of Faith And Devotion'). Il disco chiude la cosiddetta trilogia degli album della band prodotti da Ben Hiller, dopo 'Playing The Angel' e 'Sounds Of The Universe'.

 

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11. EXCITER (2001)

Il tour annesso all'uscita del greatest hits 'The Singles 86>98', fu un trionfo e insieme la conferma di quanto Dave Gahan fosse ormai a suo agio nel restare sobrio, lontano dalle sue storie di eroina che tanto avevano animato la critica negli anni Novanta. Nel maggio 2001, dopo che il nuovo millennio aveva da poco fatto la sua comparsa, fu la volta di 'Exciter'. Ben quattro anni separavano il disco dal suo predecessore, 'Ultra', pertanto il nuovo lavoro fu lietamente accolto dal fanbase mondiale del gruppo, che lo fece esordire nella Top 10 sia in Inghilterra che negli Stati Uniti. La produzione di Mark Bell, poi scomparso a soli quarantatré anni nel 2014, fu certamente connessa al suo background. Già noto per il progetto techno pionieristico LFO e per la sua collaborazione con Björk, di cui aveva prodotto album 'Homogenic' (1997), l'apporto di Bell si fa senz'altro sentire in 'Exciter', con quei suoni elettronici sottilmente carezzevoli, dettagliati e crepitanti che adornano ad esempio il singolo 'Dream On'. In sé, non mancano momenti distinguibili nel loro essere pulsanti, in 'Exciter'. Si guardi a "Shine", "When The Body Speaks" o alla delicata "Goodnight Lovers"; e nemmeno sono da respingere gli altri singoli dai titoli prettamente sentimentali: "I Feel Loved", "Freelove" e "Goodnight Lovers". E seppur non propriamente effervescente, come lavoro, ha un che di peculiarmente sfuggente da risultare interessante.

 

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10. PLAYING THE ANGEL (2005)

Se c'è un ’fan-favorite’, guardando particolarmente alla Depeche-produzione degli anni Duemila, questo è 'Playing The Angel'. La cosa non riguarda, tuttavia, l'autore di queste righe, ma poco importa ai fini del rilievo che continua ancora ad avere l'undicesimo capitolo discografico della band. L'album fu un successo esattamente come il tour ‘Touring The Angel’ e i quattro brani trasformati in singoli che lo supportarono, "Precious", la compatta "A Pain That I'm Used To"  che apre l'album, "Suffer Well" e "John The Revelator". Fede, peccato, dolore e sofferenza sono temi sempre caldi e cari a Martin Gore, messi al centro delle parole che Gahan, come in "The Sinner In Me", distribuisce con maestria sulla consueta (ma non scontata) miscela organica di beat synth-pop e chitarre che questa volta suonano qui e lì più pesanti del solito. All'epoca, le vendite mondiali dell'album superarono ampiamente la cifra del milione e mezzo. Un risultato affatto scontato se si pensa che fu quello un periodo in cui il CD cominciava a essere visto come un supporto commercialmente obsoleto.

 

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9. SOUNDS OF THE UNIVERSE (2009)

Uscito in coda agli anni Duemila, 'Sounds Of The Universe' è in linea generica un trionfo di ispirazione compositiva e grande padronanza della materia sonora, e ciò, senza entrare nello specifico, si mostra in tutta la sua evidenza già nei primi istanti di "In Chains". Non paga del successo dato dalla collaborazione con Ben Hiller per il precedente 'Playing The Angel', la band lo richiamò al timone della produzione e i risultati di questo rinnovato entusiasmo non si sarebbero fatti attendere, a partire dal primo singolo "Wrong". Il disco è inondato di bellezza, che in questo senso si può immediatamente cogliere in "Fragile Tension", molto semplicemente uno dei brani più intensi di tutto il Martin L. Gore catalogo. Mentre '"My Little Soul" si presta a esempio concreto della partnership creativa fra lui e Gahan, il lavoro scorre limpidamente, risplendendo di una luce che in qualche modo gli conferisce il carattere dell'unicità rispetto agli altri dischi. "Peace" rievoca i Beatles di "Across The Universe" nella melodia vocale, bagnandosi in un mare di elettronica colta. "Come Back" avrebbe dovuto suonare molto più gospel, ma fu poi deciso di "inondarla di un muro di suono", spiegò così alla stampa Gahan a quell'epoca. La scelta dell'impiego di sintetizzatori in prevalenza analogici ha certamente aiutato a conferire al composto di 'Sounds Of The Universe' un taglio elettronico più tradizionale. Tuttavia, alla sua uscita il disco non produsse nessuna hit nei primi venti posti della classifica UK dei singoli (cosa mai successa prima nel caso dei Depeche Mode), pur assestandosi senza problemi al terzo posto in quella USA degli album. Se c'è un lavoro dei Depeche da riscoprire, guardando al periodo meno "glorioso" e popolare, diciamo, questo è sicuramente 'Sounds Of The Universe'. 

 

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8. SPEAK & SPELL (1981)

Se lo ascolti oggi sono diverse le emozioni che provoca. Inizialmente, se si tiene a mente tutto ciò che di grande avrebbero composto Gore e gli altri nelle epoche successive, può venirti da sorridere. Nella realtà, però, prendiamone tre brani a caso, "Dreaming Of Me", "New Life" o il tormentone "Just Can't Get Enough" erano e restano delle piccole grandi gemme sintetiche, particolarmente l'ultima delle tre citate. Seppur un tantino asciutto e puerile, già un brano come "Photographic", che non lasciò indifferenti i nostri Bluvertigo (penso all'introduzione della loro "Altre Forme di Vita"), anticipa un fiotto di quella seriosità più definita e strutturata che sarebbe emersa in futuro. Riascoltate 'Speak & Spell', e fatelo senza preconcetti. 

 

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7. SOME GREAT REWARD (1984)

Dopo le sperimentazioni un po' ostiche che compenetravano il terzo album, 'Construction Time Again', con 'Some Great Reward' la band cominciò ad assestarsi su un suono forse più di facile presa, ma guardando con estrema cura all'aspetto del sound design. L'elettronica pop-dance d'annata di "Lie To Me", "People Are People" o "Master And Servant" rende questi brani imprescindibili, ma anche non troppo graditi a chi è maggiormente attratto dal materiale più impegnato e introspettivo del gruppo. (Lo stesso dicasi per "Somebody", ballata al pianoforte, forse un po' troppo melensa, cantata con trasporto da Martin Gore.) 'Some Great Reward' rimane in ogni caso un caposaldo della discografia del gruppo, e momenti di synth-robotico e ispirato come quelli che disegnano "If You Want" o "Blasphemous Rumours", il cui testo tira in ballo il tema del suicidio nel contesto dell'adolescenza, ne sono una conferma.

 

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6. CONSTRUCTION TIME AGAIN (1983)

Il terzo lavoro dei Depeche mette in risalto un lessico musicale particolarmente variegato che parte della critica non è stato in grado di rilevare. Ci sono le aperture melodiche, ma insieme inquiete, della splendida "Love, In Itself", il ritornello istantaneo di "Everything Counts", le cui liriche non alludono a qualcosa di spensierato (ma a temi quali corruzione e ingordigia corporativista); c''è Il post-punk elettronico di "More Than A Party", ma soprattutto ci sono gli esperimenti sonori di "Pipeline". Con 'Construction...' infatti, il gruppo vide una fase di grande e audace indagine stilistica, sfruttando il mezzo del campionamento e apparecchiature come il Synclavier, che fu introdotto al gruppo da Daniel Miller. "Pipeline" è anche indicativa di una certa assuefazione, da parte di Gore in particolare, ai suoni industriali dei tedeschi Einstürzende Neubauten. Il disco fu poi mixato in Germania (da Gareth Jones), agli storici Hansa Studios di Berlino, già molto frequentati da David Bowie nel periodo immediatamente successivo a 'Station To Station'. In questa crescente fase di carriera, inoltre, Gore, Gahan e Fletcher poterono beneficiale dell'aggiunta in formazione di un musicista di estrazione classica come Alan Wilder, il quale fu anche autore, in quest'album, di "Two Minute Warning" e della superlativa "The Landscape Is Changing".

 

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5. VIOLATOR (1990)

Ancora oggi, forse più per non venir meno a un certo conformismo, si tende a eleggere 'Violator' come miglior album dei Depeche Mode. Questo perché, molto spesso, se ne mette in risalto il valore commerciale a scapito di quello contenutistico (che comunque c'è, e resta alto). Dalla seconda metà degli Ottanta la band già godeva di un successo piuttosto importante negli Stati Uniti, ma fu con 'Violator' che la Depeche-mania americana esplose per davvero, invadendo per la prima volta la Top 10 della Billboard 200. Il bombardamento di "Personal Jesus" e della candida "Enjoy The Silence" fecero da traino, e così quello di "Policy Of Truth", brano di immediata orecchiabilità. Complessivamente l'album, il settimo che la band fece come quartetto, non pecca di cadute di tono. "Blue Dress" scorre vellutata, esattamente come la più ammaliante "Clean". Se però esiste un momento davvero unico, in 'Violator', questo coincide con la magnificenza di "Waiting For The Night", a offrire una finestra temporale sullo splendore di quelle atmosfere notturne che la band perlustrerà con 'Ultra' (1997).

 

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4. SONGS OF FAITH AND DEVOTION (1993)

Come avrebbe spiegato Andy Fletcher, il successo stellare di 'Violator' fu difficile da metabolizzare. Dave Gahan, che era di casa a Los Angeles quando i Depeche si riunirono per registrare un nuovo album, aveva frattanto abbracciato la tipica attitudine da rockstar americana, che ora andava esprimendo attraverso una cambio di look piuttosto evidente (capelli lunghi, tatuaggi) e un interesse dichiarato verso band quali Jane's Addiction, Soundgarden ed Alice In Chains. Soprattutto, come alcuni membri di queste formazioni, Dave aveva cominciato a flirtare pericolosamente con la sfera narcotica, finendo presto per sviluppare una dipendenza da eroina. 'Songs Of Faith And Devotion' è, forse anche alla luce di ciò, uno dei lavori più tormentati dei DM: solido nella sua interezza, ma soprattutto ricco delle più disparate sfumature. C'è il "rock" elettro e cupo dell'iniziale "I Feel You". C''è l'inquieta, struggente bellezza depressiva di "Walking In My Shoes" e di "In Your Room". Ma c'è anche il gospel perversamente incantevole di "Condemnation", forte di una prova vocale di Gahan senza precedenti che lo stesso cantante, ancora oggi, riconosce come la meglio riuscita di tutta la sua storia. Realizzato in co-produzione con Flood, alla sua uscita l'ottavo disco dei Depeche mantenne altissima la popolarità del gruppo. L'estenuante tour che seguì, da cui fu ricavato il bellissimo film-concerto 'Devotional' (curato dal fotografo/director Anton Corbijn), portò Gore e gli altri al collasso psicofisico, creando al contempo molte tensioni interne alla band. Dopo quest'album, Alan Wilder rassegnò le sue dimissioni.

 

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3. ULTRA (1997)

Con la dipartita di Wilder, la band tornò a essere ufficialmente un trio, un po' come già era successo ai tempi di 'A Broken Frame'. Dopo una lunga pausa, Martin Gore cominciò a comporre qualche nuovo brano e nel momento in cui vi fu materiale a sufficienza per cominciare a registrare, la band reclutò l'esperto producer Tim Simenon, già famoso per il suo progetto Bomb The Bass. Tuttavia, la tossicodipendenza di Dave Gahan rallentò di molto la conduzione del progetto (il nono da studio), tanto che la Mute cominciò seriamente a preoccuparsi per il futuro dei Depeche Mode. Gore fu costretto ad accarezzare non proprio volentieri l'idea di sviluppare il nuovo materiale in un album solista, ma un'overdose che portò il cantante a morire per alcuni minuti e a essere rianimato, a suo stesso dire, "col metodo 'Pulp Fiction'”, cambiò il corso della storia. E lo fece, lo si può affermare, in modo definitivo. Per tramite di una invidiabile forza interiore Gahan riuscì a liberarsi per sempre dalle catene dell'eroina, e i Depeche provvidero a dare ai posteri un lavoro morbosamente glaciale e romantico, e insieme misterioso e fascinosamente impenetrabile. Ameno per chi scrive, 'Ultra' resta il lavoro più complesso uscito a nome Depeche Mode. Un capolavoro che non può che riflettere l'inferno di Gahan e la sua faticosa risalita (seppur non dichiaratamente - Gore smentì che i testi vi facessero riferimento). E 'Ultra' si concepisce secondo un insieme di composizioni estremamente ricercate, raffinate, dove nulla è artefatto, ma dove anzi ogni suo elemento pare giungere dalle più vaste profondità dell'anima. Non si può che restare rigorosamente silenti e assorti dinnanzi a "Barrel Of A Gun" e alle struggenti "Sister Of Night", "The Love Thieves" (da pelle d'oca), "Home" o "Insight", cui Gore e Gahan prestano in contemporanea le loro voci. 

 

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2. MUSIC FOR THE MASSES (1987)

Co-prodotto insieme a David Bascombe, 'Music For The Masses' è forse l'album più "universale" dei Depeche Mode, in grado di farsi apprezzare, forse più di ogni altro, anche da chi è poco avvezzo al suono del sintetizzatore. Innegabilmente alta è la qualità di "Strangelove", "Little 15", "Sacred", "Behind The Wheel", così come di "Never Let Me Down Again", il cui particolare suono del rullante fu campionato da "When The Levee Breaks" dei Led Zeppelin (brano che la comunità globale di ingegneri del suono tende a prendere spesso come campione per analizzare il suono di batteria ideale). Ma se 'Music For The Masses', col suo titolo, intendeva essere un modo canzonatorio per sbeffeggiare l'idea di commerciabilità, nella realtà la musica contenuta nel sesto disco dei Depeche altro non fece se non portare al gruppo un'attenzione mediatica sempre più invadente. Basti pensare che il Music For The Masses Tour si concluse con una data al Rose Bowl di Pasadena cui sarebbero accorse oltre sessantamila persone. Da quella data fu poi tratto il primo live album della band, '101', e con lo stesso titolo fu prodotto un docufilm che D. A. Pennebaker, lo stesso dietro alla macchina da presa che filmò Bowie nell'ultimo concerto di Ziggy Stardust, diresse e produsse.

 

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1. BLACK CELEBRATION (1986)

Dopo il successo della raccolta 'The Singles 81→85', 'Black Celebration' vide i Depeche Mode penetrare ancora più profondamente la peculiare oscurità destinata a divenire nel loro caso un marchio di fabbrica. Non serve avventurarsi troppo in là per capirlo. "La morte è ovunque", canta con grande trasporto Gahan in "Flies On The Windscreen", brano che fa seguito al minutaggio della fenomenale traccia di apertura, omonima all'album. Stupendamente tetro, 'Black Celebration' è un lavoro integro, compiuto (prodotto e mixato, ancora una volta, con la collaborazione di Gareth Jones e Daniel Miller) e che fu parimenti essenziale, sorvolando per un secondo sui suoi contenuti, anche se si guarda all'evoluzione di un certo industrial rock. Trent Reznor ne fu così stregato da lasciarvisi ispirare per la scrittura di 'Pretty Hate Machine', il debutto del 1989 (uscito su TVT) dei suoi Nine Inch Nails. Mentre, alla fine degli anni Novanta, i Rammstein reinterpretarono a modo loro - non proprio fedelmente, diciamo - uno dei brani simbolo di 'Black Celebration', "Stripped", che nella sua irripetibile versione originale non può che collocarsi tra i vertici compositivi dei Depeche Mode. Il testo di 'Stripped', contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non porta riferimenti di natura sessuale, dacché si riferisce semmai, lo spiegò anche Fletcher, "a due persone che si spogliano fino al livello delle loro emozioni". 'Black Celebration', a prescindere da ciò, va introiettato totalmente sia con i suoi momenti più vivaci, che in quelli dalla natura più "metafisica": dalle due (in parte speculari, ma solo per i titoli) "A Question Of Lust" e "A Question Of Time", passando per "Here Is The House", "World Full Of Nothing" e il favoloso synth-pop noir di "Dressed In Black" e "New Dress".

 

Rimasti ufficialmente un duo i Depeche Mode, nelle persone di Dave Gahan e Martin Gore, tornano oggi con un nuovo brano dal titolo alquanto evocativo. "Ghosts Again", che fungerà da primo singolo per 'Memento Mori', è accompagnato da un nuovo video curato nientemeno che dal loro affezionato collaboratore di lunga data, Anton Corbijn. I ricchi toni monocromatici che ne adornano le splendide, seppur alquanto lugubri immagini, sono ideali a rappresentare le stesse concezioni liriche impresse in "Ghosts Again", le quali vertono su "sentimenti sprecati, significati spezzati e... un posto dove nascondere le lacrime che piangiamo". La chitarra di Martin Gore, il cui volto appare più interessato dall'inesorabile scorrere delle ere di quanto non lo sia, invece, quello di Gahan, costruisce melodie che, in contrasto con tutta la cupezza di cui sopra, appaiono edificanti quando non ottimiste. Il peculiare genere synth-pop caro al gruppo sembrerebbe qui riesumare quasi l'asciuttezza del primo periodo annesso alla band, quello della giovinezza di 'Speak & Spell', che vedeva ancora nell'organico la presenza (centrale) di Vince Clarke.  "Per me, 'Ghosts Again' cattura il perfetto equilibrio tra malinconia e gioia", ha commentato Dave Gahan a ridosso del lancio del video. Mentre Gore ha aggiunto: "Non capita spesso di registrare una canzone che ho poi voglia di ascoltare ripetutamente - un brano che sono ora entusiasta di poter condividere". Con queste premesse, attendiamo dunque calorosamente l'uscita del nuovo album, già ufficialmente descritto dal management del gruppo come un qualcosa di vicino a "una vasta distesa di stati d'animo e trame", a cominciare dalla sua "minacciosa apertura e sino alla sua risoluzione finale, dove la paranoia incontra l'ossessione, la catarsi la gioia, ma dove in mezzo scorre una miriade di altre cose".

 

 

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