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Nell'afterparty di Tatum Rush, tra Richard Benson e Shakespeare

Descrivere Tatum Rush e il suo immaginario non è poi così semplice: lo fa lui in questa intervista.
Nell'afterparty di Tatum Rush, tra Richard Benson e Shakespeare

Descrivere Tatum Rush e il suo immaginario non è poi così semplice. Se non altro perché dentro c’è di tutto. Non solo musica (come in una matrioska psichedelica dentro la voce “musica” ci sarebbero almeno cinque categorie: pop, r&b, disco, trap e techno). Ma anche arte e letteratura. Leggi la sua biografia e ti domandi se in fondo quello che ha fatto finora Giordano Rush – classe 1989, nato a San Diego, in California, prima di trasferirsi nella Svizzera italiana e poi a Ginevra – l’ha fatto per davvero o se è pura finzione narrativa. Tra i suoi riferimenti culturali il poliedrico artista e producer cita “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald e Beau Brummell, la figura più emblematica del dandismo. Nel curriculum, tra le varie cose, ha una laurea in performance art e la partecipazione come performer in una creazione originale tra musical e teatro contemporaneo messa in scena da Noémie Griess – e chi è? – al Theatre de l’Usine di Ginevra, “Star Local World Tour”. In fondo “Villa Tatum”, il suo nuovo album (è appena uscito per Undamento, l’etichetta indipendente già dietro a Frah Quintale, Joan Thiele, Ceri e Dutch Nazari), il primo in italiano a distanza di sette anni dall’esordio in inglese con “Guru Child”, è la trasposizione in musica del suo bizzarro universo creativo. La sua casa dei sogni – esplorabile anche attraverso un sito, villatatum.com, un contenitore virtuale popolato da videoclip, collezioni esclusive di NFT e tanto altro – dove tutto è possibile. Una lussuosa e misteriosa villa con vista sul Mediterraneo.

“Dionisiaco ma anche salutista Tatum propone di prendere parte al suo afterparty metafisico, talvolta debosciato”, si legge nella scheda dell’album. Che succede in questo afterparty?
“Cosa non succede, mi verrebbe da dire (ride). Mi immagino una festa ambientata nella Londra dell’Ottocento, dove l’intellighenzia si mischia con il popolo. Pensavo a quello quando ho scritto la scheda”.

Cosa c’entra con il disco?
“La mia musica mischia alto e basso, sacro e profano. Non è facile farlo senza risultare pedanti. In fondo ‘Villa Tatum’ riassume i miei studi finora. Non solo musicali, ma anche artistici”.

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La copertina di "Villa Tatum"

Cioè?
“Ho studiato belle arti. Scrissi una tesi sul trash. E citavo Richard Benson”.

Va aggiunto ai tuoi punti di riferimento, accanto al “Il grande Gatsby” di Francis Scott Fitzgerald e Brummell?
“Senza dubbio. Lo considero un maestro vero. Realizzai anche una pièce teatrale su di lui, una decina di anni fa”.

Una pièce su Richard Benson?
“Non sto scherzando. Rileggevo la sua rocambolesca vita come se fosse una tragedia di Shakespeare: l’opera si intitolava ‘Richard III’”.

Cosa è successo tra “Guru Child” e “Villa Tatum”, in questi sette anni?
“Ho studiato il linguaggio del pop italiano. E ho imparato progressivamente ad applicarlo alla mia musica, a partire dall’Ep ‘Drinks alchemici’, uscito nel 2020. La matrice rimane sperimentale: r&b, disco, techno, groove futuristici. Solo che rispetto al passato stavolta ho prestato più attenzione ai testi: non si prendono mai troppo sul serio, ma restano incastrati nell’orecchio. Come in ‘Sparring partner’, in cui accosto Pier Paolo Pasolini e Gianluca Vacchi: ‘Dai, spiegami Uccellini e uccellacci / e che ha pure il suo perché Gianluca Vacchi’”.

Chi ti ha dato una mano?
“Ceri (produttore tra i più apprezzati della nuova scena, già al fianco di Franco126, Frah Quintale, Coez, ndr). Mi ha aiutato ad affinare il mio stile”.

In che modo?
“Analizzando le formule legate alla composizione, alla scrittura e anche alla produzione delle canzoni. Il disco è un omaggio al pop con la ‘p’ maiuscola, anche parecchio citazionista”.

Qualche esempio?
“‘Dalla’, con quegli archi e la ritmica funk, parte come un pezzo degli ABBA. Ceri un giorno mi ha fatto sentire ‘Gimme! Gimme! Gimme! (A man after midnight)’. Mi ha detto: ‘Non è importante fare pezzi più o meno belli: è importante fare le hit’”.

Hai fatto qualche altro ascolto in particolare?
“Non proprio: non volevo lasciarmi condizionare troppo nell’elaborazione di uno stile tutto mio. L’unico che ho davvero studiato senza sapere che lo stavo effettivamente studiando, forse, era Pop X. Siamo amici, lo stimo: il suo è un mix tra qualcosa di trash e qualcosa di sofisticato e geniale”.

Con Alan Sorrenti, per il quale insieme a Ceri hai prodotto “Oggi”, una delle canzoni contenute nell’ultimo album “Oltre la zona sicura”, come è andata?
“Con Ceri cinque anni fa avevamo fatto una cover di ‘Figli delle stelle’ che Sorrenti aveva amato moltissimo: non è un caso che abbia voluto farsi produrre da lui, per questo nuovo disco. Un giorno Stefano (è il vero nome di Ceri, ndr) mi ha chiamato: ‘Passa in studio, c’è Alan che vuole conoscerti’. Ci siamo ritrovati a fare musica per il gusto e il piacere di farla. Sarò onesto: non conoscevo la sua discografia. È stata un’esperienza rivelatrice”.

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