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Cure a Padova, la recensione (con disegno) di Massimo Giacon

Il concerto visto, raccontato e illustrato
Cure a Padova, la recensione (con disegno) di Massimo Giacon

Non so cosa dobbiamo aspettarci dal concerto dei Cure.
Io e Nicoletta (soprattutto Nicoletta, che va oltre le apparenze), abbiamo voluto fortemente andare a questo appuntamento nonostante le battute degli amici, e anche le battute sul web che riguardano Robert Smith.
“Ma che grasso!”.
“Ha fatto i capelli tutti bianchi!”.
“Alla sue età ancora quel rossetto e quella faccia truccata, ma sembra mia zia!”.
Per dire giusto le cose meno offensive. 
Poi, dopo i primi concerti della tournée mondiale… tutti zitti.
Nessuna critica feroce nemmeno sulle anteprime dei pezzi del disco nuovo, anzi, si dice che trattasi di materiale ottimo.
Io da “Head on the door” non li seguo quasi più. Tra l’altro recensii a fumetti quel disco per Rockerilla su testo di Vittore Baroni, e non eravamo stati particolarmente gentili. 

I Cure davano già allora l’dea di una band che aveva già dato, e che tutto il resto si sarebbe trascinato stancamente. 
Lo zoccolo duro dei fan della prima ora, quelli che partivano da “Three Imaginary Boys”, arrivavano a "Pornography" e si fermavano lì (già, perchè perfino “Disintegration” risultava troppo frivolo), i “puristi del dark”, voltarono le spalle alla band. Ma poi puristi di che? i Cure hanno inventato un suono, e a mio avviso hanno avuto tutto il diritto di pervertirlo, non è un patrimonio museale da preservare, la musica è volatile e si trasforma. 
i Cure sono ancora qui, in barba a band più giovani, forse più irriducibili e meno commerciali. 
Un pezzo dei Cure lo hai sentito comunque come sottofondo a qualche pezzo di costume sul telegiornale, o su una pubblicità, o a un servizio del cazzo su qualsiasi cosa frivola succeda di venerdì e allora ci schiaffano sotto “Friday I’m in Love”.  
Questo cicciolone imbiancato e triste di Robert Smith ce l’ha fatta, e in barba a tutti gli antidepressivi presi si presenterà puntuale all’appuntamento, con classici vecchi e nuovi. Ovviamente io sono più affezionato alla depressione sterilizzata dei primi tempi, ma non ne faccio un dogma.

Quando una mia amica mi fece vedere il video di “Lovecats”, dove  Smith esibiva per la prima volta la maschera bianca, il rossetto, gli occhi truccati, le collane voodoo e i capelli neri sparati per aria da cui poi non è più riuscito a staccarsi ero impazzito, come per il video girato nell’armadio di “Close to me”, e allora avevo detto, però, c’è humor oltre lo Xanax. 
Che poi questa storia degli antidepressivi si è molto ridimensionata nel tempo. Ora Smith è un solido e oculato amministratore di sé stesso, con un patrimonio che si aggira intorno ai 200 milioni di dollari e più.
Dicono sia di una precisione svizzera, per cui ci muoviamo alle 19 per arrivare in tempo. 

Entriamo mentre sta suonando la band di supporto, il palazzetto non si è ancora riempito del tutto e non riusciamo nemmeno a capire se i Twilight Sad , che suonano di supporto, valgono qualcosa o meno, perchè siamo alla ricerca del posto da cui vedere il concerto. Ho una visione sfuggevole di un ragazzo che canta in salopette e che dal punto di vista del look è quanto di più lontano ci si possa aspettare dal concerto di chi ha inventato un genere e anche un look: il “gotico”, con tutto quel che vuol dire in termini di ragazzine dagli occhi neri, croci, labbra scure ed enormi anfibi.
In verità il pubblico non è così. Giovani pochi, molte barbe bianche. Osservo con una certa perplessità anzianotti con barba bianca, clarks ai piedi e maglietta dei Bauhaus.
Dopo un quarto d’ora inizia il concerto.

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Robert Smith arriva con la sua camminata impacciata, imitata benissimo da Sean Penn nel film di Sorrentino “This must be the place”, che però non era stato molto gradito dal cantante dei Cure.
Aveva detto a riguardo: “Nun mi somigghia penniente”.
Il concerto parte con uno dei pezzi nuovi, “Alone”. La voce di Bobby è rimasta limpida, come il sound del gruppo, nonostante per i miei gusti abusino un pò troppo di effetti eco e flanger.
E’ inutile che a questo punto vi elenchi la scaletta dei brani che hanno eseguito, visto che è stata pubblicata più volte, e che rispettano in  tutti i concerti, con un copione identico e solidissimo. Devo dire che avrei voluto emozionarmi con uno dei miei brani preferiti, “A Strange Day”, purtroppo il refrain di chitarra è stato coperto da una tastiera troppo invadente, ma perdono tutto, anche perchè siamo stati comunque premiati da un’altro inedito che compare nel nuovo album, “Endsong”, che è un magnifico modo per terminare la prima parte, visto che era da tanto che non scrivevano una canzone così bella. 
I bis sono generosissimi, ben due, durante i quali eseguono in tutto 11 pezzi. Hanno suonato per 2 ore e 45 minuti, e che dire, sono stati commoventi. 

Simon Gallup col basso è un motore sempre rodatissimo, sfoggia dei fuseaux bianchi che uno della sua età non potrebbe nemmeno lontanamente avvicinare, e invece è in forma splendida, la sua vecchiaia l’ha attaccata evidentemente tutta a Robert Smith, di cui alla fine siamo tutti innamorati fottendocene dei chili in più e dei capelli bianchi e diradati, e che in un paio di occasioni ha fatto pure piangere gli ascoltatori che hanno tutti gli occhi lucidi. Alla fine l’uomo dalla faccia bianca resta da solo, e saluta tutti con la mano sul cuore.

Non so se fa finta di piangere o è un bravo attore, ma commuove pure me. Ho un debole per le vecchie star che raccattano le vecchie ossa, le mettono insieme, tornano sul palco e fanno dei concerti che spaccano il culo. Certo che se alla fine mi faceva “Lovecats” era in assoluto il concerto perfetto, ma si sa che l’imperfezione ha il suo fascino in questo mondo che non è più gotico ma direi sempre più primitivo. 

 

Massimo Giacon
 

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