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L'andare oltre di Niccolò Fabi: "Amo la vita più del palco”

Il nuovo singolo, il concerto all’Arena del 2 ottobre, il senso delle canzoni, oggi: l’intervista
L'andare oltre di Niccolò Fabi: "Amo la vita più del palco”
Credits: Giulio Cannavale

Un solo concerto e una sola canzone. Nell’estate della ripartenza della musica dopo la pandemia, quella della sovrabbondanza di tour e spettacoli e pubblicazioni dopo due anni di magra, Niccolò Fabi riparte da “Andare oltre” e da uno spettacolo, il 2 di ottobre a Verona, per i 25 anni di carriera.
In un periodo in cui molti artisti cercano di rinnovare il proprio suono affidandosi a produttori più giovani, all’elettronica e alla contemporaneità, Fabi lavora con un’orchestra: “Un suono fuori dal tempo, che ognuno sente proprio e riconosce”, spiega a Rockol. “Io amo la vita molto più del palcoscenico, molti miei colleghi amano la vita molto più del palcoscenico. Ci torno quando ho storie da raccontare in forma di concerto,  Il palcoscenico, per me, è un posto bello solo in alcuni casi, quando c’è qualcosa da offrire e condividere”.
Siamo partiti da “Andare oltre” (prima pubblicazione del nuovo contratto con BMG), da cosa succederà all’Arena (dove Fabi si dividerà tra performance solitarie e brani di repertorio riarrangiati) per arrivare a parlare del senso delle canzoni oggi e dell’effetto che fa risentire canzoni di 25 anni fa su Spotify, oggi


“Poi ricominciare da capo ad uscire la sera”: sono le prime parole di “Andare oltre”, una canzone che parla di tornare a vivere, dopo un periodo complesso. A cosa ti riferisci, in particolare? 
Le canzoni sono fotografie di uno stato d’animo, non sono filosofiche, nel senso che non approfondiscono un argomento. Esprimono la reazione di una persona a certi accadimenti in un certo momento. In questa canzone racconto di un momento in cui ricominciare e aprire una nuova fase della propria vita può essere faticoso. È la storia di un uomo e la donna di una certa età, quando la storia che hai alle spalle è un tesoro ma anche un peso da cui separarsi. Racconta la fatica di ricominciare, magari quando l’hai già fatto altre volte.

Hai usato il verbo “Raccontare”, ma spesso tendiamo a leggere le canzoni come discorsi in prima persona, delle piccole autobiografie. C’è stata una scintilla personale da cui è nato questo racconto?
Non si può prescindere dalla vita in quello che si scrive, ma nel mio decalogo personale mi sono obbligato a non scrivere nulla che parli solo di me. Una canzone nasce solo nel momento in cui un’esperienza personale o vissuta attraverso le persone che ti sono accanto diventa una storia aperta, in cui stai raccontando tante cose assieme. 
In questo caso, più di altre volte, mi sono reso conto che il punto di partenza era meno significativo. Per esempio, l’ho fatta ascoltare ad un caro amico che aveva appena perso il suo compagno di vita dopo 30 anni: a 55 anni si trovava a dover ricominciare una vita, e non per scelta. Sembrava molto più scritta per lui che per me. Le canzoni hanno questa possibilità di essere tante cose se chi le scrive riesce abbastanza preciso per descrivere una situazione, ma non troppo particolareggiato per escludere gli altri ad entrarci. È nelle cose che non dici che gli altri vedono la propria storia.

Dopo la fase acustica di “Una somma di piccole cose”, quella elettronica di “Tradizione e tradimento”, ora una nuova fase, quella orchestrale.
Se non ci fosse stato il concerto dell’Arena, chissà cosa sarebbe successo: non avevo in previsione di incidere una canzone con l’orchestra. 
Pensando a quel concerto, volevo offrire agli ascoltatori qualcosa che non avevo mai fatto e mi sono convinto dopo tanti anni a lavorare con un’orchestra. L’avevo sempre sfuggita, con un po’ di timore che fosse troppo retorica, che amplificasse l’epica e il mio sentimentalismo, che diventasse tutto troppo. 

Cosa rappresenta per te l’orchestra?

Il suono dell’orchestra è eterno, è un suono ognuno nella cultura occidentale sente comunque proprio. Ho pensato di correre il rischio di enfatizzare alcune dimensioni, ma anche di dare un suono fuori dal tempo: lavorando con Enrico Melozzi ho capito che c’era la possibilità di fare un passo in più, su alcune nuove idee. Il concerto dell’Arena così avrà questo valore in più di non celebrare soltanto il passato, ma anche quello che sarà il futuro

Molti tuoi colleghi in questa fase però cercano di contaminarsi con suoni più contemporanei, quelli delle nuove generazioni. Ci hai pensato anche tu?
Mi fa sorridere del fatto che dopo anni continuano a dirmi “mentre i tuoi colleghi…”. È vero che negli anni ho sempre fatto scelte un po’ diverse dai meccanismi che regolano le vite artistiche. 
La mia contemporaneità è più sui contenuti letterari che sulla musica in senso stretto. Negli arrangiamenti sarà comunque una commistione con un po’ di elettronica a “sporcare” il suono. Mi piace l’elettronica minimale: penso per esempio al concerto per “Vespertine” di Bjork che vidi proprio all’arena, con un uso incredibile dell’orchestra assieme a disturbi sonori elettronici
Non ci sarà chitarra basso e batteria, ma non sarà un orchestra pura e sinfonica classica. Parte dello spettacolo avrà un’orchestra e un’altra sarò da solo, l’estremo opposto: una nudità totale di fronte a migliaia di persone, assieme al vestito più articolato e complesso che abbia mai indossato.

In un anno in cui tutti suonano il più possibile, tu fai un solo concerto. Come mai?
Dopo avere fatto un anno di concerti nel 2021 e in assenza di un progetto nuovo non aveva senso fare diversamente. A differenza di molti colleghi, non amo stare sul palcoscenico. 
Io amo la vita molto più del palcoscenico, molti miei colleghi amano il palcoscenico molto più della vita. Gli dà la conferma di quello che sono, non solo economicamente, è l’ossigeno e il carburante della loro vita. Il palcoscenico, per me, è un posto bello solo in alcuni casi, quando c’è qualcosa da offrire e condividere. Quando ho una storia da raccontare in forma di concerto.

Qual è la parte del tuo lavoro che ritieni più importante?
Il mio lavoro non è stare su un palco, il mio lavoro è scrivere, proporre  dei contenuti artistici e poi condividerli, farli brillare in maniera diversa su un palco dopo che ognuno se li è vissuti nella propria vita. Ma per me, la cosa più importante che faccio è mettere a disposizione delle cose che ognuno si possono ascoltare vivere senza me davanti… Il concerto è una sorta di esplosione di storie che io ho scritto per ognuno di loro e questo succede se fai pochi concerti. Poi ovviamente c’è anche il fatto che con un concerto in quello dell’arena, se facessi altri concerti prima c’è il rischio che quello sia un momento meno forte

Questo concerto arriva a 25 anni dal tuo primo album, “Il giardiniere”. È una sorta di punto e a capo?
Quando scrivo, raramente metto un punto, più facilmente metto i tre puntini. Mi piace più la sospensione, mi ci trovo più a mio agio. Ma è indubbio che 25 anni hanno una valenza simbolica non indifferente. Tornano alle scelte che ho fatto, la mia esistenza artistica è un po’ un miracolo.

Che effetto ti fa riascoltare ora la tua musica di 25 anni fa? Tenerezza, imbarazzo o orgoglio?
Tutto queste sensazioni assieme. Mi riascolto raramente, ma l’altro giorno ho ascoltato “Andare oltre” su Spotify, anche per vedere l’effetto che faceva ascoltarla su quel player, dove è di tutti, non è più solo sul mio dropbox sul computer. Ero in macchina, e poi è partito in automatico il “mix Niccolò Fabi” e a ruota sono arrivate le canzoni della mia storia. Le canzoni vecchie mi hanno emozionato: tenerezza perché la mia voce è diversa, è come un legno che doveva invecchiare, dovevo vivere prendere spessore. Ma anche rispetto, perché anche negli episodi meno riuscito c’è sempre stata una tensione verso il fare qualcosa di pulito, senza malizia.

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