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Kendrick Lamar live a Milano: un profeta rap allo specchio

Il premio Pulitzer presenta un concerto in cui i suoi pensieri diventano coreografie di danza.
Kendrick Lamar live a Milano: un profeta rap allo specchio
Credits: Stefano Centonze

Il concerto di Kendrick Lamar al Milano Summer Festival, in scena all’Ippodromo Snai, ha sin dalle premesse i tratti dell’esperienza unica, dell’evento storico. Per il rapper di Compton, premio Pulitzer nel 2018, è un ritorno nella città meneghina dopo nove anni, è la prima data ufficiale del suo tour dopo la pubblicazione dell’ultimo album “Mr. Morale & the Big Steppers”. Un’ora e venti di live, all’inizio con un audio ovattato. Lamar, vestito di un bianco candido, circondato da alcuni danzatori, si presenta senza gruppo e senza dj davanti a 24mila persone di diverse età, tantissime dall’estero. La musica, che l'ufficio stampa del promoter ci dice suonata da una band nascosta, sembra arrivare da un’altra dimensione. Entra camminando, flemmatico. Un’apparizione. Lo accoglie un boato da goal al Maracanã. Dietro di lui un megaschermo con davanti uno specchio verticale che non riflette in modo limpido, ma spezzetta le figure, le fa quasi a pezzi, distorcendole. Il suo viaggio è proprio lì, nel continuo scavare dentro se stesso, in una cervellotica e infinita seduta di psicanalisi.

Quando canta “Humble”, uno dei brani simbolo di “Damn”, si gira e rappa verso la telecamera che lo insegue per il palco, guardandosi per l’ennesima volta in quei frammenti di vetro in cui rivede le sue paure, che sono anche le nostre, perché una delle sue grandi doti è proprio quella di trasformare i dolori personali in ragionamenti collettivi e generazionali. I pensieri, nella performance di Lamar, come già era successo al Super Bowl e in altre apparizioni, scalpitano, escono dal suo cervello e diventano realtà: corpi vividi che danzano. E questo contribuisce a dare vigore al concerto. Diciamocelo: bisogna poterselo permettere di stare, con questa modalità, sul palco. E Lamar può permetterselo. I ballerini che lo accompagnano, fulcro centrale della sua messa in scena, divisi in due gruppi, scandiscono il ritmo dei pezzi. I movimenti dei performer si fanno robotici e militari sulle canzoni più diritte, fluttuano dolcemente nell’aria durante i brani con più respiro. Un'installazione artistica che muta.

Su “Count me out”, dopo una prima parte di live in cui riaffiora il suo secondo album “Good Kid, M.A.A.D City”, oltre alla più recente e ipnotica “N95”, alcune danzatrici vestite di rosso, soavi, si incontrano sul palco formando una coreografia che avvolge e abbraccia il rapper, in un ennesimo momento di dialogo con se stesso, in una nuova fase di espiazione. Non mancano attimi di accelerazione e di adrenalina come quando in sequenza arrivano “King Kunta”, accolta da migliaia di mani al cielo molleggiate, “I”, “Alright” e “The Blacker The Berry” in cui tutti i danzatori si ritrovano insieme.

La forza evocativa della parola in Lamar è tutto. C’è una sacralità. Non sarebbe neppure da specificare, ma ovviamente rappa dalla prima all’ultima barra senza una voce di supporto o una base con playback, è il pubblico la sua vera spalla: come abbiamo scritto in “To Pimp a Butterfly” ha affrontato i grandi temi che affliggono la comunità afroamericana attraverso un poema rivolto al suo idolo Tupac Shakur, in "Damn" ha declinato tutto questo in un più complesso discorso biblico su tentazione e dannazione, mentre in “Mr. Morale & the Big Steppers”, figlio dell’isolamento pandemico, scandaglia autobiografia e introspezione, raccontando le ferite della sua infanzia, ma anche il suo ruolo di artista, partner e padre.

Sul finale di concerto, dopo una lunga parte in cui trovano spazio anche “Element” e “Loyalty”, c’è tempo per “Love” e “Savior”, “la mia canzone preferita dell’ultimo disco”, dice Lamar. È proprio all’apice del live che, come un profeta davanti a dei discepoli, dopo una personale via crucis trasformata in rito collettivo, Lamar spiega come le persone siano tutte connesse fra loro e che le parole che dovrebbero guidare tutti noi sono “rispetto e amore”. Il rapper di Compton per catturare l’attenzione non ha bisogno di trovate o sparate, viaggia completamente in un’altra direzione rispetto a buona parte del rap di oggi, spesso ammorbato dall’ego trip: porta avanti la scuola dell’hip hop anni ’90, ma lo fa con un linguaggio contemporaneo e con una propria identità. Sprigiona un’energia mistica, da santone, e ci riesce mostrandosi per quello che è: un soffio divino dentro un comune e fragile umano.

Scaletta:
United in Grief
m.A.A.d city
Money Trees
Backseat Freestyle
The Art of Peer Pressure
Swimming Pools (Drank)
Poetic Justice
Bitch, Don't Kill My Vibe
N95
Count Me Out
King Kunta
I
Alright
Institutionalized
The Blacker the Berry
BLOOD.
DNA.
ELEMENT.
Silent Hill
LOYALTY.
LUST.
HUMBLE.
LOVE.
Savior

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