'1 giant leap': la globalizzazione sostenibile

Ne hanno di storie da raccontare e di pensieri da esprimere Jamie Catto e Duncan Bridgeman, di passaggio negli uffici milanesi della casa discografica NuN Entertainment, oggi lunedì 18 marzo, per presentare a una platea di giornalisti, musicisti e menti curiose (in sala ci sono Fernanda Pivano, Jovanotti, Mauro Pagani…) il progetto globe-trotter di “1 Giant Leap”.
Un work in progress multimediale e cosmopolita in bilico, come i lettori di Rockol già sanno, tra musica e video, pensiero filosofico e reportage giornalistico, un caleidoscopio di suoni e immagini che condensa in un CD già in circolazione e in un DVD annunciato per maggio appunti e frammenti di un giro del mondo in 180 giorni che ha portato i due musicisti-produttori-video maker a visitare 25 paesi collezionando le testimonianze audiovisive di decine di nomi illustri (della musica, del cinema, della letteratura, del culto) accanto alle immagini, ai volti e alle parole “catturati” tra la gente comune di ogni angolo del mondo. Con un concetto forte, condivisibile e quanto mai d’attualità a fare da collante all’intero percorso: l’unità dei popoli e delle idee, delle culture e delle religioni nella diversità che caratterizza e distingue ognuno dall’altro. Un esempio felice di globalizzazione sostenibile realizzato “senza alcuna intenzione, da parte nostra, di pontificare”, precisa subito Catto, già membro fondatore e mente creativa dei Faithless, uno dei progetti di dance “pensante” più popolari degli ultimi anni. “Quando vogliono trasmettere un messaggio o la loro visione del mondo gli artisti diventano inevitabilmente pedanti e noiosi. In ‘1 Giant Leap” i messaggi ci sono, eccome: solo che non escono dalle nostre bocche, piuttosto dalla miriade di persone – pensatori, guru, artisti, scrittori e soprattutto uomini e donne comuni - che abbiamo incontrato lungo il viaggio. E credo che siano proprio l’accessibilità e l’immediatezza – continua – a distinguere questo progetto da altri che lo hanno preceduto, da ‘Koyaanisqatsi’ o “One world, one voice’. Lì allo spettatore veniva richiesto un impegno continuo per non perdere il filo del discorso, qui invece ogni argomento trattato (dodici, suddivisi in altrettanti capitoli-composizioni musicali) è stato volontariamente sminuzzato in pillole in modo che anche chi non ha tempo e voglia di tuffarsi anima e corpo nell’ascolto e nella visione ha modo di coglierne immediatamente lo spirito e il contenuto”. “Un po’ come quando devi condensare il tuo sapere musicale in un singolo da tre minuti”, esemplifica l’allampanato Bridgeman, produttore e hit maker negli anni ’80 (con diversi successi al fianco di Duran Duran, Eurythmics, Take That e sir Paul McCartney nel carniere) che un giorno, racconta lui stesso, ha voltato le spalle al pop da classifica per farsi crescere i capelli e mettersi a suonare il didgeridoo. “Non avevamo una sceneggiatura da seguire, l’unica cosa che avevamo predisposto in anticipo erano gli argomenti sui cui volevamo raccogliere testimonianze, musiche, documenti”, spiegano in coro i due produttori di “1 giant leap”. “A rendere il tutto eccitante è stato il modo in cui le persone hanno reagito emotivamente agli stimoli che gli si presentavano: quando per esempio un musicista raggiunto in un villaggio sperduto dell’Africa ascoltava in cuffia ciò che altri avevano registrato mesi prima, aggiungendovi il suo contributo. Davanti alle telecamere e alle apparecchiature di registrazione nulla è avvenuto due volte”. .
Con trecento ore di “girato” rimaste inutilizzate, i giornalisti sono curiosi di sapere se l’affascinate racconto audiovisivo avrà un seguito. “ ‘1 giant leap’ è un cantiere in produzione continua, e dunque ci interessa più quello che stiamo per fare di ciò che abbiamo accumulato in archivio”, risponde Catto. “Ma certo”, gli fa eco Bridgeman, “con tutto quel materiale a disposizione, è facile pensare che qualcosa di ciò che abbiamo nei cassetti verrà ripescato e utilizzato”.
L’elenco di celebrità che si sono prestate al gioco – da Brian Eno a Baaba Maal, da Dennis Hopper a Kurt Vonnegut, da Tom Robbins a Michael Stipe dei R.
E.M. (“uno straordinario manipolatore di suoni, aperto anche alle idee più folli”, dice Catto) – dicendo la loro su religione, sesso, relazioni internazionali, politica, amore, morte, deanro, famiglia – è quanto di più ampio e variegato si possa immaginare. “Ma tanti hanno detto di no”, risponde Catto a precisa domanda; “per esempio Woody Allen, Almodòvar, il vostro Benigni ci hanno detto di non avere tempo. Altre volte, come con Vonnegut, ce l’abbiamo fatta dopo tre tentativi andati a vuoto. Perché non c’è Peter Gabriel? Da quindici anni gli propongo di tutto, senza esito: programmi radiotelevisivi, progetti musicali, allestimenti teatrali. Quando il lavoro era ormai terminato ci ha finalmente invitati a cena, chiedendoci che cosa poteva fare per noi. A quel punto ci siamo accontentati di avere il suo attestato di stima per l’iniziativa”. .
E quanto è costato, il progetto (finanziato da Chris Blackwell, patron della Palm Pictures e impresario discografico “visionario” per eccellenza fin dai tempi gloriosi della Island)? “I vip hanno partecipato a titolo gratuito”, spiega Catto; “i musicisti sono stati trattati a paga sindacale standard, 250 sterline per session di registrazione, mentre abbiamo riconosciuto delle percentuali di royalty a tutti coloro che hanno fornito un contributo creativo. Abbiamo realizzato un videoclip per il mercato pop, con la canzone di Robbie Williams (“My culture”): beh, quello da solo è costato come tutto il resto, viaggi compresi”.