Fionán Martin Hanvey e Gavin Friday non sono sempre la stessa persona. Raramente, forse, si sono assomigliati come in “catholic”, ultimo album del poliedrico e imprevedibile artista irlandese che negli ultimi sedici anni ha fatto di tutto meno che pubblicare dischi a suo nome. “Però sono stati sedici anni intensi, dal punto di vista artistico e creativo”, puntualizza lui al telefono, loquacissimo e cortese. “Ho scritto colonne sonore, ho lavorato con ensemble orchestrali, ho recitato a teatro e al cinema, ho dipinto. Ho visto l’industria discografica entrare in crisi e crollare: non sapevo dove posizionarmi in un mercato che guarda solo agli adolescenti, dominato da ‘Glee’ e tutta quella insulsa musica americana. Volevo imparare, approfondire i miei interessi: come gran parte dei maschi, ho cominciato a maturare a quarant’anni. Ho sempre seguito l’istinto. Senza avere un piano in mente, accavallando progetto su progetto. Ogni volta è un po’ come tornare al college: per sei mesi ti dedichi anima e corpo a una cosa soltanto. Se si tratta di un set cinematografico, è come andare sotto tortura…E poi ti arrivano addosso le cose brutte della vita: la malattia, la morte di amici e parenti, la dissoluzione dei rapporti sentimentali. A un certo punto ti volti indietro e ti accorgi di avere cinquant’anni. E che ne sono passati sedici dal tuo ultimo disco. Allora ti dici che è ora di rimettersi a scrivere e incidere canzoni. A me è venuto in mente dopo le ultime rappresentazioni shakespeariane... Chi l’avrebbe detto, nel 1982, che il Gavin Friday dei Virgin Prunes a quasi cinquant’anni avrebbe recitato Shakespeare? E’ la mia sete di conoscenza, che mi ha spinto fin lì. La voglia di mettermi alla prova e di mantenermi vivo. Ho sempre patito il fatto di non avere potuto frequentare l’università. La mia università, in un certo senso, sono stati i Virgin Prunes. Ed è stata la mia fortuna: ho avuto a disposizione un veicolo in cui incanalare la mia rabbia e la mia energia”. Ne è passato del tempo e, come dice Fionán, “shit happens”: la morte del padre, una malattia e la fine del matrimonio hanno segnato la sua vita e condizionato la scrittura delle nuove canzoni. “Scrivere un pezzo come “Blame”, dopo la morte di mio padre, è stato difficile. Pensavo a chi incolpa sempre qualcuno della situazione in cui si trova, si tratti magari di problemi di alcool o di droga. Mio padre era un bastardo, mia madre non mi capiva, mia moglie era una stronza e così via…Così facendo, non risolvi niente. Con mio padre, mentre era in vita, ho avuto una relazione molto turbolenta. Dura, conflittuale: non sono certo l’unico, della mia generazione. In Irlanda, ai tempi della mia adolescenza, i genitori non sapevano come mostrare affetto ai loro figli, non sapevano comunicare: era il retaggio di tutta quella paccottiglia culturale cattolica e machista. Ricordi ‘Breakfast on Pluto’, il film in cui ho recitato anni fa? E’ tratto da un romanzo omonimo che l’autore, Patrick McCabe, aveva dedicato proprio a me.. E’ stata una sfida, recitare la parte di un glam rocker: nel ’72 avevo dodici anni e compravo i miei primi singoli…E’ una commedia surreale, eppure racconta perfettamente quanto fosse repressa l’Irlanda ai quei tempi in tema di sessualità, politica, droghe, religione. Per far capire a un adolescente di oggi come fosse allora il nostro Paese consiglio la visione del Dvd”. Tornando a “Blame”… “Quando è morto mio padre ho provato grande rispetto per lui, succede sempre così no? Ne è venuta fuori una canzone bella e diretta, che trasmette depressione e tristezza ma anche desiderio di riscatto. E’ una delle canzoni più emotive e personali dell’album”. Si può dire lo stesso per “Lord I’m coming”? “Beh, ci sono canzoni che vengono fuori semplicemente, strimpellandole alla chitarra. Altre che ceselli a lungo. Questa invece è nata da un’improvvisazione. Non so dirti da dove arrivino quelle parole e perché le abbia cantate così: a un certo punto tutto ha preso la forma di una specie di sequenza cinematografica. Anche le parole erano improvvisate: le ho lasciate intatte perché non sono riuscito a trovarne di migliori. Quel pezzo parla del ritrovarsi sveglio alle tre di notte dopo una giornata o una settimana difficile, con il mondo intorno che va a rotoli. Ma poi, all’improvviso, senti nascere dentro un desiderio di redenzione, la voglia di cercare un posto migliore. Ci sono due modi di reagire al dolore: farsi sopraffare e diventarne vittima oppure cercare di farsi forza e superarlo. E’ questa la mia soluzione, per questo motivo ritengo che ‘catholic’ sia un disco fondamentalmente ottimista. Il tema è l’elaborazione del lutto e del dolore, la necessità di andare avanti“. “catholic” con la c minuscola…. “Sì, mi riferisco al significato originale della parola che è molto diverso da quello che poi gli ha attribuito la Chiesa Romana Cattolica. Il termine risale al greco antico e al latino e significa universale, di tutti gli uomini: non mi pare che le pratiche quotidiane dell’organizzazione ecclesiastica seguano questo precetto. Per gli irlandesi della mia età l’educazione cattolica è stata inevitabile, è solo negli ultimi 15-20 anni che nella maggior parte dei Paesi europei la Chiesa è stata ripudiata da molti per via della corruzione, degli abusi sessuali e di tutto quel che sappiamo. Ho scelto di chiamare così il disco perché, pur non essendo un manifesto politico o religioso esprime qualcosa di spirituale: alcune delle canzoni sono quasi delle preghiere, delle piccole preghiere un po’ gotiche. Hanno un che di sognante, un tono intimista che anche dal vivo, dopo un primo rodaggio nei festival estivi, necessiterà di ambienti raccolti. Mentre incidevo non sapevo ancora che avrei intitolato così il disco: è come quando fai un figlio, finché non nasce non sai di che sesso sarà”. Simboli religiosi e nazionalisti abbondano anche sulla copertina: dove Gavin è ritratto avvolto col tricolore e con un crocefisso in grembo. “Durante la lavorazione del disco”, spiega, “sono cominciate a venirmi in mente queste immagini di me dormiente, o di me morto e pronto a resuscitare. Ero stato a una mostra a Dublino e avevo visto questo famoso dipinto di Sir John Lavery, ‘Love of Ireland’, che raffigurava Michael Collins, l’eroe nazionale ucciso negli anni Venti durante la Guerra Civile. Mi sembrava che quell’immagine cogliesse un momento di emozione e di dignità particolare del Paese, un momento storico in cui l’Irlanda ribellandosi alla dominazione inglese sognava un futuro migliore. E mi è venuto in mente che di qualcosa di simile avremmo bisogno anche oggi. Dopo l’assurdo boom degli anni precedenti, siamo precipitati nella bancarotta economica, morale e spirituale. L’Irlanda ha un disperato bisogno di risollevarsi e qualunque artista, ritengo, ha il dovere di alzare un dito per aria per sentire da che parte tira il vento”.
Il mensile Uncut ha definito “catholic” il miglior album degli U2 del ventunesimo secolo: che ne pensa, Fionán? La risposta è preceduta da una sonora risata… “Si sa, i giornalisti sono ossessionati da questa storia della mia antica amicizia con Bono. Va bene così, non mi offendo di certo, anche se non vedo somiglianze tra la mia e la loro musica”. Gli piacciono ancora, gli U2? “Il mio disco preferito resta ‘Achtung baby’, mi piace la sua atmosfera dark e la sua visceralità. Ma ho apprezzato anche l’ultimo disco, adoro ‘Moment of surrender’. E’ una canzone emozionante, per me una delle migliori che abbiano mai fatto”.