
La Roundhouse è una pietra miliare architettonica di Londra e di Camden. Sorta per consentire la manovra in senso inverso ai tram che oltre 100 anni fa erano sprovvisti di retromarcia, ha poi ospitato generazioni di rocker, da Stones e Hendrix fino a Clash e Sex Pistols. Ristrutturata, è una venue fantastica che conserva la sua originaria struttura circolare con pilastri in ferro interni e che, per qualche ignota ragione, offre un’acustica meravigliosa. Chiedetelo a Paul Simonon, i cui giri di basso giungono potenti, precisi e ineluttabili la sera in cui torna a condividere il palco con l’amico Mick Jones per la prima volta dai tempi dei Clash. E’ una rimpatriata che forse solo Damon Albarn avrebbe potuto progettare con tanta naturalezza: al Roundohouse vanno in scena i Gorillaz in carne ed ossa, con 2D, Murdoc, Noodle e Russell a fare da tappezzeria mentre Albarn e Jamie Hewlett dirigono una house band stellare con decine di ospiti ad avvicendarsi in un’ora e 45 minuti di show.
La parte anteriore destra del palco è affollata e tutta femminile: coriste e suonatrici d’archi ostentano un look sexi-marinaresco in ossequio al concetto ispiratore di “Plastic beach”, e Jones e Simonon si adeguano con blazer blu e berretto bianco da yachtman, schierati sulle estreme. Parte la intro, Albarn e Hewlett si confondono nelle retrovie, deliberatamente anonimi. Il primo, maglietta a strisce orizzontali nere e rosse sotto un giubbotto di pelle nera, è là per gestire un’alchimia sonora e artistica molto complessa: apparire non gli interessa. Il secondo cede il passo alle sue creature in animazione sullo schermo retrostante, sul quale compare a sorpresa uno Snoop Dogg agghindato da ammiraglio e ammiccante come solo lui: 'Welcome to the World of the Plastic Beach' prende la forma di un rap e di un video commissionati per l’occasione a un ospite necessariamente remoto (quei suoi vecchi problemi di visto nel Regno Unito persistono...). Prende forma uno spettacolo che segna le distanze dall’intero concetto di ‘virtual band’: altro che ologrammi, è uno show super-umano sorretto da una sezione ritmica con una micidiale doppia batteria che detta legge.
Il pubblico esplode con “Stylo”: Bruce Willis impazza nel clip, Bobby Womack dal vivo. La 66enne soul star, accolta da un’ovazione e da un Albarn visibilmente estatico, dà il via alla imponente parata di ospiti allestita dai Gorillaz. Mentre farli arrivare da ogni angolo del pianeta e riunirli deve essere stato parecchio difficile e costoso, farli coesistere sembra un gioco da ragazzi per Albarn. Ciascuno è impegnato a cesellare una porzione dell’affresco che l’ex Blur ha immaginato e realizzato con disinvoltura, amalgamando così armonicamente generi e stili lontani da rendere ‘crossover’ un termine arcaico. Eccolo, momentaneamente sotto i riflettori, duettare con Yukimi Nagano dei Little Dragon in 'Empire ants' prima che arrivino in sequenza Bootie Brown con un rap devastante in 'Dirty Harry', la Syrian National Orchestra (che prima ridisegna 'White flag' in senso arabeggiante e poi la condivide insieme a Kano e Bashy) e infine De La Soul, a centro palco con Gruff Rhys per 'Superfast jellyfish'. In 'Glitter freeze' manca Mark E. Smith dei Fall (pre-registrato), mentre Womack ritorna col botto per 'Cloud of unknowning'. I Gorillaz e la loro posse scompaiono dietro le quinte per una breve sosta, e rientrano per i bis: Mos Def si lancia in una interpretazione mozzafiato di 'Sweepstakes', un freestyle da antologia con Albarn al piano; torna Yukimi Nagano per duettare ancora in 'To binge' e poi, attesissimo, arriva l’uno-due finale: una scatenata 'Feel Good Inc' con De La Soul (e un corto in 3D con protagonista Noodle in background) e un’altrettanto straordinaria 'Clint Eastwood'.
Genio artistico, sperimentazione e attitudine: dal 1998 i Gorillaz combinano avanguardia e mainstream, basso profilo e stardom, culto e popolarità planetaria in una formula musicale inimitabile e in perenne evoluzione, sempre un passo avanti agli altri. Ridimensionato il virtuale, dal vivo prevale un’abilità musicale tutta analogica che rivela lo spessore di un suono e di una contaminazione che solitamente associamo a un’esperienza in studio, a una produzione ‘sintetica’. I pupazzi sono lo schermo dietro al quale il laboratorio di Damon Albarn produce a pieno ritmo, sono la giustificazione per accostare con credibilità tante diversità e renderle accettabili: nessun musicista potrebbe permetterselo, ma a dei personaggi immaginari è concessa qualsiasi scelta… Sono anche lo schermo che consente all’artista di anteporre la musica ai musicisti, il progetto ai personaggi, partendo da sé e estendendo la linea a tutti, fino a diluire con noncuranza due quarti molto nobili dei Clash in un collettivo e stemperarne la storica riunione in un cameo.
Il concerto è filato via senza alcun annuncio, con nessun commento, nessuna presentazione, nessuna parola. Solo Bobby Womack, vecchio cuore soul, si è distratto per un attimo è gli è scappato un ‘thank you’. E così, a metà tra l’atmosfera di un rave e quella di un club, forse i Gorillaz hanno dimenticato di avvertire che assistevamo all’anteprima galattica del ‘making of’ della nuova dance music.
Di seguito la scaletta completa del concerto dei Gorillaz al Roundhouse di Londra il 29 aprile:
Orchestra intro
Welcome to the world of the Plastic Beach
Last living souls
O Green World
On Melancholy Hill
Kids with guns
Stylo
Rhinestone eyes
Broken
Empire ants
Dirty Harry
White flag
Superfast jellyfish
Dare
Glitter freeze
El Mañana
Cloud of unknowing
Sweepstakes
To Binge
Feel Good Inc
Clint Eastwood