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Abbiamo incontrato il cantore delle storie del lago di Como. Loquace, interessante, alla mano, ci ha parlato di quel che gli sta succedendo...

All’anagrafe si chiama Davide Bernasconi, ma si è scelto come nome d’arte Van De Sfroos, ovvero vanno di frodo, riferito ai contrabbandieri che simbolicamente hanno sempre rappresentato il suo riferimento. E’ partito dalla zona del lago di Como armato di dialetto tremezzino e storie da raccontare, e ora il suo nome, per motivi artistici e non, sta girando l’Italia. L’ultima sua uscita discografica è “Laiv”, un doppio album dal vivo con 24 canzoni tratte dai tre album finora pubblicati e quattro pezzi inediti, compresa una cover di un brano di di Tom Waits, “Frank's wild years” che lui ha trasformato in “I ann selvàdegh del Francu”. L’abbiamo incontrato per farci raccontare quel che gli sta succedendo.

La prima domanda è scontata, hai già risposto molte volte, ma per chi non ti conosce vale la pena rifarla. Sei leghista?
Alla fin dei conti se n’è parlato ampiamente, ma il parlarne non è un problema, a me non dà fastidio dire duemila volte che non sono leghista. L’importante è chiedersi come mai diventa più importante dove vieni visto, in quale emittente e così via. Chiedersi perché vieni inquisito da qualcosa o da qualcuno, non si capisce bene perché, e non per quello che scrivi nelle canzoni, o per quelli che sono i messaggi, gli sforzi, dei cento concerti all’anno suonando nei posti più disparati, da CL ai centri sociali. Questo quasi passa in secondo piano, perché c’è una forma di disinformazione che vuole sapere se hai il bollino blu o il bollino verde. Io che di bollini non ne ho non ho grossi problemi a farmeli mettere tutti e poi alla sera togliermeli.
Qualche settimana fa è bastata la dichiarazione di alcuni fan e sono diventato l’esponente della Padania di sinistra, che è una cosa che non ho mai sentito, magari un giorno ci saranno anche i fascisti di sinistra.
Questo gioco di parole e di etichette è poco interessante, credo sia interessante invece un certo coraggio da parte mia, che è quello di andare dai leghisti che ascoltano le mie canzoni e che sanno che non sono leghista ma continuano ad ascoltare le mie cose, per i contenuti, per i testi. E poi sono persone ognuna diversa dall’altra.
Io so chi sono e cosa penso esattamente, però non mi va assolutamente di far finta che non esista un’intera zona che vuol sentire le mie canzoni, canzoni dove non c’è niente che possa fargli manipolare le mie idee.
Io vado spesso a Radio Padania e sono stato sempre trattato con grande professionalità, non sono mai stato etichettato in nessun modo, e gli ascoltatori lo sanno. E per questo sono andato a cantare tre o quattro canzoni alla loro festa. Si meritavano la mia presenza. Non posso dire, nel momento in cui sono invitato, ‘non vengo perché altrimenti qualcuno pensa che...’. Vado lì in modo leale.

Hai appena pubblicato un disco live. Cosa rappresenta?
E’ una specie di festeggiamento, di tributo verso la gente, visto che un live lo fai solo se hai della gente sotto il palco che ti viene a vedere. Questa gente che è presente con le sue urla, con i suoi cori, nel disco.
Non è una celebrazione autoreferenziale. Sappiamo tutti quanto è difficile mettere un concerto dentro un disco, generalmente si fanno i concerti per far uscire un live, qui la procedura è inversa. Questo disco è una specie di summa di canzoni vecchie, semi-vecchie e nuovissime. E’ un tentativo anche di mettere su supporto il lato più libero di un concerto, con ospiti come le Balentes o altri. Poi è chiaro che se lo senti con le cuffie non è come essere a un concerto. Ma questa gente, che inizia ad essere tanta, andava ringraziata.
Era stupido fare un greatest hits per uno che ha fatto tre dischi. E’ meglio farlo mettendo anche qualcosa di nuovo, quattro inediti, mettendo delle varianti come la ninna nanna con la prefazione in sardo e così via.

In questo live c’è una traduzione di Tom Waits…
No, guarda, ci tengo a precisare che non è una traduzione, è più un gioco che ho fatto grazie al Premio Tenco che me lo ha chiesto. E’ stato giocare con una storia partendo da qualcosa di esistente, ma poi prendere una tangente che diventa una specie di improvvisazione fatta pensando al grandissimo Waits.

Tutti due avete il gusto del racconto....
Il suo stile non fa una piega e mi è sempre piaciuto, perché lui non è mai venuto meno ad un modo di narrare perfettamente tipicizzato e coerente con il suo mondo e la sua lingua. Dalla mia parte ho fatto questo gioco prendendo in giro me stesso, per far vedere come sarebbe stata una cosa del genere scritta da uno del lago.

Passi dal reggae al folk-rock, dalle ballate al country. In base a cosa scegli la musica da abbinare alle parole?
E’ una forma di mia anarchia interna, perché nel momento in cui ci sono io e le mie storie francamente poco mi interessa con che genere musicale possa venire etichettato un certo brano. Se l’entusiasmo del momento fa sì che un certo pezzo sia più vicino ai Clash o a Ramones ben venga “Kapitan Kurlash”, nel momento in cui sono più intimo ben venga Dylan o Cohen o chiunque altro. Io so benissimo che non sarei sereno se avessi addosso una sorta di gabbia che mi fa stare in un genere.

Hai la capacità di rendere stra-ordinarie storie quotidiane. Come scatta questo meccanismo secondo te? Sia dal punto di vista tuo di compositore che da quello del pubblico?
E’ un gioco di specchi. Basta partire, come sono partito io, dal riconoscere qualcosa di straordinario nella quotidianità di ognuno. Anche perché, come ci insegna David Linch, basta raschiare un po’ la superficie del paesino tranquillo alla “Twin Peaks” o del personaggio più tranquillo, perché dietro ci si trovi una storia .
Se tu parti da questo presupposto la storia è subito fatta, basta aprire un po’ di più lo spiraglio. Anche l’omino della porta accanto avrà fatto la sua pace e la sua guerra. Ma soprattutto conta l’angolazione con cui si va a vedere questa storia. Per parlare del contrabbandiere non uso l’angolazione dell’io narratore che racconta di lui, ma io sono una mamma che racconta al bambino di suo padre. Sono movimenti di camera virtuali.
Se io riesco a fare questo, a far vedere che non ci sono esistenze di serie A o di serie B, la gente ci si rispecchia, si sente rappresentata. Sono proprie queste esistenze non viste quelle che fanno girare il mondo.

Cosa ricordi dei tuoi esordi?
Ho cominciato con un gruppo punk-rock che comunque era post wave, erano i Potage. E’ stata la prima esperienza su un palco dietro ad un microfono. Io salivo e buttavo proprio tutto dentro a quel microfono. Poi nei primi anni dell’esperienza con il dialetto nello stesso modo cercavo di investire tutto con la furia dialettale. Cercavo già di fare delle canzoni che avessero un certo senso, ma più che una ricerca era qualcosa che inneggiava a qualcuno, ai contrabbandieri oppure a personaggi quasi da cartone animato come “Zia Luisa”. Oppure c’erano cose apparentemente demenziali come “La furmiga”. In me ricordo una grande energia mal controllata, qualcosa che usciva con le prime chitarre, con impianti anche ridicoli. Usciva tutto con l’aggressività di una band punk-folk.

E poi?
Andando avanti, com’è giusto che sia secondo me, c’è stata più attenzione, anche per gusto mio personale, al voler raccontare qualcosa di più sommesso, di non così immediato e aggressivo. Non dico che ora facciamo un concerto da mummie però le cose sono cambiate.
Il grande ago della bilancia sono state secondo me “Genesio”, “Ninna nanna del contrabbandiere” e “Pulènta e galèna frègia” da “Brèva e tivàn”, tre canzoni più intime. Non pensavo che raggiungessero così tanta gente, fino a diventare degli inni. Ancora adesso nei referendum sulle mie canzoni sono quelle che si contendono il primo posto nella memoria, nell’affetto della gente. A questo punto, visto che avevo in mente molte cose di quel tipo, mi sono sentito in dovere di lavorare ancora di più in quella direzione. Quindi c’era la poesia che finalmente non faceva più paura, la gente la vuole, basta dargliela nella giusta dimensione, con la giusta credibilità, senza farla andare per forza a comprare un libro togato, profumato, recintato. Ci sono molti poeti involontari nei paesi, gente che ha sensibilità poetica senza essere andata all’università. Questa è una cosa che ho imparato fin da piccolo. Mia zia mi raccontava cose da lei inventate e aveva fatto sì e no le scuole dell’obbligo. Tutto nasceva dalla sua fantasia.
Quello è stato il punto di non ritorno.

(Francesco Casale)

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