Nel 1980 avevo appena cambiato datore di lavoro. Dopo un bel po’ di scazzi con alcuni dirigenti della EMI, la casa discografica per la quale lavoravo dal 1978 come vice dell’ufficio stampa, ero passato con mansioni leggermente superiori - responsabile dell’ufficio stampa - alla CGD. Il primo incarico importante, nella nuova mansione, fu l’organizzazione di una cena per la conferenza stampa di presentazione del nuovo album dei Pooh, che era “...Stop”. Per me sarebbe stato un po’ un test, nei confronti della nuova dirigenza: che non mi conosceva ancora bene, e aveva di me una buona opinione (altrimenti non mi avrebbero assunto), ma anche l’idea che fossi più interessato al rock e alla musica “alternativa” (che allora non chiamavano ancora così) che al pop commerciale. Avevano abbastanza ragione di crederlo: ma nel caso specifico, quello dei Pooh, ero particolarmente voglioso di far bella figura, perché avevo una frequentazione amicale con Roby, Stefano, Dodi e Red da qualche anno, cioè da quando avevo cominciato a fare il giornalista musicale.
Tuttavia, in quel periodo in particolare la mia attenzione per la scena italiana emergente era particolarmente viva, in particolare per quella che fermentava a Bologna. La sbornia per il punk britannico mi stava passando, lasciandomi un forte cerchio alla testa; alla EMI avevo seguito da vicino i tour italiani di Iggy Pop e Patti Smith, 1979; e già conoscevo quel tizio bizzarro di Bologna, impiegato di banca Gabriele Ansaloni nei giorni feriali e Red Ronnie di sera e nei festivi (se volete leggere la storia di come l’avevo incontrato, scrivete su Google rockol + zanetti + “red ronnie” e cliccate sul primo risultato). Era per incontrare lui che ogni tanto andavo a Bologna - c’era anche un’altra ragione meno professionale e più bionda, ma non è questa la sede per dilungarsi in proposito. E a Bologna avevo conosciuto Oderso Rubini: uno sul quale bisognerebbe scrivere un libro, e non è detto che un giorno non lo faccia io. Avevo presenziato al Bologna Rock del 2 aprile 1979, ero rimasto in contatto con la scena bolognese, avevo ricevuto in dono le preziose audiocassette dell’etichetta Harpo’s Bazar (“Inascoltable” degli Skiantos, “Luti Chroma” dei Luti Chroma, “Wind open rock” dei Wind Open, “Naphta Unlimited” dei Naphta, “Gaznevada” dei Gaznevada e “Sorella Maldestra” dei Sorella Maldestra) che poi avevo trasmesso intensivamente nel programma, “Musica Obliqua”, che allora conducevo in una radio di Brescia con l’amico Silvio Poli, ed ero stato invitato al cocktail di presentazione della prima emissione Italian Records, memorabile per l’alto tenore alcolico dei tre cocktail (bianco, rosso e verde) serviti ai partecipanti. Fu lì, credo, che approfittando del mio stato di stordimento Oderso mi chiese, con il garbo e la buona educazione che già da allora erano una delle sue cifre distintive, se potevo “dargli una mano” a far avere i dischi della Italian Records alla stampa milanese. Mi dichiarai più che disponibile, e fu così che Oderso mi fece recapitare una ventina di esemplari del mitico “Pacco Italian Records”. Avvolti in lucida carta da regalo - o bianca o rossa o verde - c’erano dischi clamorosi e oggetti stupefacenti targati Italian Records: i primi sei 45 giri, i primi quattro album (quello dei Gaz Nevada in edizione limitata con allegato il singolo “Billy Blade”), una copia dell’”Harpo’s Bulletin”, una maschera di cartone riproducente il volto di Giuseppe Verdi e una bandierina tricolore di plastica.
Il mio compito era recapitare questo pacco delle meraviglie ai rappresentanti della “grande stampa” milanese.
Il mio maestro Michele Di Lernia, alla EMI, mi aveva insegnato una regola fondamentale del mestiere dell’ufficio stampa (parliamo del secolo scorso, e non solo metaforicamente): se ci tieni che un giornalista scriva di un disco che promuovi, consegnaglielo di persona. Il che significava recarsi nella redazione in cui lavorava il giornalista, previo appuntamento, e provvedere alla consegna brevi manu, accompagnandola da acconce parole di descrizione del disco medesimo - non solo su carta, in forma di comunicato stampa, ma anche verbalizzate con l’entusiasmo di uno che ci crede.
Questo pensavo di poter fare per l’amico Oderso e per l’Italian Records. Ma dopo tre settimane dalla ricezione dei due scatoloni di cartone spedite da Bologna, dei venti “Pacchi” - suddivisi nei tre colori bianco rosso e verde - ero riuscito a consegnarne solo uno. Non per cattiva volontà: il fatto è che la CGD aveva sede nella periferia est di Milano, le redazioni dei giornali erano tutte in centro, e gli impegni del nuovo lavoro mi avevano impedito di organizzare il giro delle redazioni pro-Italian Records (un lavoro ovviamente non retribuito, quindi che non poteva avere priorità su quello che stavo facendo da dipendente assunto). Oltretutto l’organizzazione della cena/conferenza stampa per i miei amici Pooh si stava rivelando più complicata del previsto: il gruppo veniva da un mezzo passo falso, l’album in inglese “Hurricane”, e i giornalisti ai quali telefonavo per invitarli a presenziare non sembravano facili da convincere.
Fu così che pensai di unire l’utile per la CGD all’utile per l’amico Oderso: perché non portarmi i “Pacchi Italian Records” alla cena dei Pooh e, all’uscita, consegnarli personalmente ai giornalisti? L’uovo di Colombo, l’ottimizzazione perfetta. E così feci. Ma commisi un errore, come diceva Cesare Polacco - l’Ispettore Rock (!) - nei Caroselli della Brillantina Linetti: ne consegnai uno anche a un importante giornalista musicale dal doppio cognome le cui iniziali sono MLF e che lavorava per il “Corriere della Sera”. Il simpatico personaggio, che allora non mi vedeva granché di buon occhio, si affrettò a fare la spia, informando il mio capo, Johnny Porta, direttore della promozione della CGD, che il suo nuovo responsabile dell’ufficio stampa gli aveva consegnato, oltre al disco dei Pooh, anche un pacco di altri dischi.
Venni convocato d’urgenza nell’ufficio di Porta, che pur abbondando del suo intercalare “chéri” (da pronunciare con la erre morbida che gli era propria), mi strapazzò ben bene, e chiuse il suo sermone minaccioso scagliandomi una freccia del Parto: “Se a te piace quella roba non credo che potrai essere la persona giusta per noi” - e per un neoassunto in periodo di prova quel commento suonava quasi come una condanna: la CGD era allora la più mainstream delle case discografiche, e certo il nuovo rock bolognese era quanto di più distante potesse pensare di inserire nei propri cataloghi.
Come andò a finire? Ve lo racconto come nel finale di “American Graffiti”.
Franco Zanetti: ha lasciato la CGD nel 1985 e da allora è campato (quasi sempre) decentemente occupandosi di musica in varie forme; il suo rapporto con Oderso Rubini è ancora oggi di immutata, spero reciproca affettuosa stima, e ancora oggi quando Oderso gli chiede un favore (e viceversa, quando è lui a chiedere un favore a Oderso) ciò avviene senza trasferimento di denaro o altre prebende.
Johnny Porta: ha lasciato la CGD dopo essersi, meritatamente, arricchito con un’operazione promozionale di vendita di audiocassette abbinate ai fustini di detersivo. La CGD: è morta e sepolta. Ma nel 1983 ottenne un gigantesco successo commerciale con il 45 giri di un duo che quell’ufficio stampa al quale piaceva “quella roba” aveva fatto entrare nel catalogo (parlo di “Vamos a la playa” dei Righeira).
I Pooh: sono ancora in pista, più di trent’anni dopo.
Oderso Rubini: anche lui è ancora in pista, e ha sempre gli occhiali e i baffi (benché per un periodo li abbia inspiegabilmente tagliati, con risultati fisiognomici inquietanti).
Per quanto riguarda i “Pacchi Italian Records”, ahimé, è di data relativamente recente un tragico evento. I tre - uno bianco, uno rosso e uno verde - che avevo conservato con cura e amore, ancora chiusi e in perfette condizioni di conservazione (“mint”, come dicono quelli che se ne intendono), sono stati vittima di un disastro domestico, quello che le agenzie di assicurazione definiscono “danno da acqua condotta, ovvero “bagnamento da fuoruscita d’acqua”. Si è rotto un tubo dell’acqua del bagno di casa mia, ha allagato il mio archivio e ha inzuppato una imponente quantità di materiale, compresi i Tre Pacchi Italian Records dei quali andavo così fiero. Delle tante cose che mi erano care che sono andate perdute in quella drammatica evenienza, credetemi: quei Tre Pacchi sono ciò che rimpiango di più. Forse era destino, chissà.