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«ANCHE MOZART COPIAVA E PLAGIAVA I BEATLES - Michele Bovi» la recensione di Rockol

Ladri di canzoni

Viaggio nel Far West dell'editoria musicale

Recensione del 25 gen 2024 a cura di Claudio Buja

Minerva, 368 pagine, 23 euro

Voto 7.5/10

La recensione

Avvertenza per i lettori: conosco da anni Michele Bovi e sono stato citato in alcuni passi del libro; se da una parte non penso che questo possa aver scalfito la mia intenzione di mantenere tutta l’obiettività possibile nel recensirlo, dall’altra credo sia giusto dichiararlo subito.

Quest’ultima fatica di Michele Bovi – diretta discendente di un altro volume di Bovi, “Anche Mozart copiava”, del 2004 - in realtà non riguarda solo il plagio in senso stretto, ma tocca, più in generale, tutti quei casi di usurpazione della paternità spesso sfociati in controversie legali ma ancor più spesso passati sotto silenzio o talvolta risolti attraverso accordi “stragiudiziali”, vale a dire ricomposti prima di arrivare alle aule di tribunale.

Partendo da un titolo che appare paradossale - Mozart che plagia autori nati quasi due secoli dopo di lui? Ma il verbo è usato qui nel senso transitivo di “influenzare” - Bovi racconta, in maniera documentata e convincente, di truffe, soprusi, angherie, furbizie spesso perpetrate da editori musicali a dir poco spregiudicati a danno di autori (perlopiù giovani, sprovveduti e non ancora associati ad una collecting society) e a favore di altri, alcuni dei quali anche di gran nome. Tuttavia - dopo aver dipinto questa scena a volte grottesca ma più spesso drammatica colorata di disonestà, malversazioni, false promesse, incassi indebiti per chi sapeva come manovrare le regole preposte alla gestione del diritto d’autore - Bovi propone una sorta di tesi innocentista, sulla base della considerazione che in fondo nessuno può creare più nulla di originale poiché tutto l’inventabile, in musica, è già stato scritto, composto e inventato.

Ma che tristezza pensare ad un mondo in cui non ci sarà più nulla di nuovo… Eppure questa è la tesi più spesso frequentata dagli avvocati che difendono i presunti plagiari: che cioè nessuna delle opere in discussione (in particolare l’opera che si presume plagiata) possieda quei requisiti di creatività e di originalità necessari per affermare l’esistenza del plagio.

Ne discende che – dopo aver scritto un atto d’accusa per alcune centinaia di pagine, quasi fosse un pubblico ministero prestato alla musica – Bovi indossa le vesti del giudice per assolvere tutti o quasi, insinuando il dubbio che ad una colpevolezza per così dire “allargata” non possa corrispondere alcuna condanna individuale.

Al di là di questa condiscendenza (che chi scrive non condivide, in nome della difesa del diritto d’autore), questo testo è davvero fondamentale per capire il fenomeno delle somiglianze, vere, presunte, dimostrate o meno, più o meno consapevoli, nell’arco di diversi secoli ma con particolare attenzione agli ultimi sessant’anni. E per questo è importante che lo leggano non solo gli specialisti, i musicisti, i periti di parte e d’ufficio, i giuristi; lo dovrebbero approfondire anche gli studenti di musica e tutti quelli che – come in una crime story – vogliano conoscere i fatti e soprattutto i misfatti del music business.

Perché, almeno nella parte che riguarda il mondo della musica pop in Italia nei Sessanta e Settanta, Bovi narra di un vero girone infernale, dove alcuni editori, in quegli anni, ponevano in atto veri piani criminosi con la connivenza di autori compiacenti (come dicevamo, alcuni di loro dai nomi davvero altisonanti) per lucrare su titoli e copyright in realtà scritti e pubblicati da altri.

Quando ad esempio l’editore Paolo Dossena confessa candidamente di aver suggerito - ad alcuni adattatori italiani di successi stranieri - di depositare in Siae le canzoni come fossero proprie per evitare le lungaggini legate alla richieste di autorizzazione ai veri aventi diritto, omette di dire quanto queste opere “finte originali” (e in realtà cover di hit internazionali) portassero incassi e guadagni non dovuti nelle tasche di editori e autori diversi da coloro che avrebbero dovuto essere ricompensati; altre volte a farne le spese furono gli autori ancora sprovvisti di autorizzazione SIAE, che si videro costretti a lasciar firmare quei famosi prestanome che facevano capo ad organizzazioni editoriali pronte a tutto pur di arrotondare gli incassi. In caso di dubbi, chiedere a Francesco Guccini (“Auschwitz”), Gianni Dall’Aglio (“Pugni chiusi”) e a quei pochi, ancora vivi, che sono riusciti a riappropriarsi delle loro opere, non senza fatica, in tempo per poter godere dei legittimi proventi.

Un vasto piano criminoso, dicevamo: ma andate a leggere queste pagine per capire come funzionava il sistema e per scoprire i nomi e i cognomi di chi per decenni ha saputo approfittare del music business e delle falle nei regolamenti che avrebbero dovuto presidiarlo.  

“Anche Mozart copiava…” non è solo questo. Ci sono naturalmente più o meno tutti i casi famosi, da Michael Jackson a George Harrison, da Prince a Jovanotti; ci sono capitoli che riguardano le terribili “omonimie” (cioè titoli dolosamente uguali a quelli di canzoni di successo), i plagi al Festival di Sanremo, quelli cinematografici di grandi colonne sonore, quelli di canzoni dello Zecchino d’Oro, e molti altri ancora.

C’è pure un capitolo, come preannuncia il titolo, dedicato ai Beatles – e qui forse l’autore si lascia prendere un po’ la mano quando scrive della somiglianza tra “Yellow Submarine” e la napoletana “Funiculì Funiculà”….

Il volume è completato e impreziosito da note giuridiche da parte di due avvocati della fama di Giorgio Assumma e Gianpietro Quiriconi, e da altri contributi di Girolamo De Simone, Vincenzo Mastronardi e Nicola Battista, oltre a un vasto elenco di fonti bibliografiche.

Se non l’aveste ancora capito, una lettura vivamente consigliata. Pazienza se poi – vi garantisco - non potrete più ascoltare successi come “Sapore di sale” o “A chi” con la stessa innocenza con cui li si ascoltava cinquant’anni fa.

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