È un album epico quello degli Elbow. Non solo per la cura degli arrangiamenti e le sperimentazioni, ma per la capacità di innalzare la storia, di farla assurgere a qualche cosa di più di un semplice racconto. Nelle nove tracce che compongono “Giants of all sizes” suono e parola sono fedeli alleati, combattono insieme i mostri della contemporaneità, in bilico fra visioni personali e finestre sul mondo. Nichilismo e ricerca della positività è come se fossero seduti allo stesso bancone di un pub mentre sta suonando la band di Manchester, arrivata alla sua ottava fatica.
Guy Garvey, voce del gruppo, scava dentro se stesso, piange la morte del padre e saluta amici che non ci sono più, galleggiando nell’incertezza del futuro, sotto l’ombra della Brexit. Non dimentica di puntare gli occhi sulla tragedia delle Grenfell, l’incendio catastrofico avvenuto a Londra nella notte del 14 giugno 2017, e di guardarsi intorno costantemente. Garvey ha definito il disco così: “un vecchio, rabbioso e malinconico lamento che trova la sua salvezza nella famiglia, negli amici, nella band e in una nuova vita”. Il lavoro è stato prodotto e mixato dal tastierista Craig Potter, che come per gli ultimi quattro dischi ha trovato un equilibrio perfetto fra tutti i componenti de gruppo.
“Giants of all sizes” è un album, come mai prima, pieno di lividi e ricco di diverse sonorità rock, per questo molti fans, ascoltandolo, lo potrebbero trovare un unicum nella più che ventennale carriera del gruppo.
“Dexter and Sinister”, il pezzo di apertura, è un viaggio di sette minuti dentro la perdita della fede e sull’estinzione, il biglietto da visita di un album che in diverse parti appare oscuro, ma mai del tutto arrendevole nei confronti della vita. Guai, però, a pensare che la poesia dei testi sia accompagnata da strutture sonore soffocanti o dark. “Giants of all sizes” è un disco aperto, ricco di cambi di sonorità, orchestrale e limpido. Riesce a far viaggiare la mente indietro nel tempo e allo stesso modo risulta attuale. Si passa da “Doldrums”, trascinata da echi che sembrano distanti, a “My trouble” in cui l’elettronica di inizio canzone fa da tappeto alle parole di Garvey. Queste parti non risultano mai fredde e riescono a interagire anche con i frammenti acustici dell’album. E poi, manco a dirlo: le chitarre, in molti frangenti, sono arrembanti e magiche come in “White noise white heat”, una goduria pura per i fan del gruppo, in altri momenti invece sono più jazz come in “Empires”. La rabbia e la speranza sono quindi declinate in diversi modi, ma con coerenza. Non ci sono anime distanti, tutte viaggiano insieme: vogliono, in modo diverso, entrare dentro la vita, dentro il dolore, tentando nell’impresa di addolcirlo.
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