Li avevamo lasciati a settembre con un ep omonimo in cui il “rant speech” degli Sleaford Mods, pur non perdendo il contatto con le radici punk, post-punk e hip-hop, talvolta si lasciava sedurre dalla melodia, trasformando in canto (o nenia) il tipico flow arrabbiato e tagliente di Jason Williamson.
“Eton Alive” per certi versi imbocca con più decisione quella strada: Andrew Fearn, il responsabile di campionamenti, sequenze e ritmi, espande la tavolozza timbrica e modella con maggiore profondità le produzioni delle tracce, mai così cupe, nichiliste e pessimiste. Il sorprendente e riuscito quinto album in studio del duo di Nottingham scava non solo nelle pieghe della società, ma anche in quelle dell'animo umano, con una particolare attenzione all'emotività maschile. A dire il vero, quando queste novità sono portate agli estremi le cose non funzionano al meglio: “When You Come Up To Me” e “Farewell”, comunque, sono gli unici episodi un po' opachi di un lavoro compatto e spietato. “Into the Payzone”, la traccia di apertura, è una sorta di marcia industrial scandita dal “bip” di una cassa da negozio: “Post, recover, eat, post, hate”, sputa amaro Williamson, scandendo su ritmiche secche la danza di noi tutti consumatori “social”. Una pulsione simile anima “Big Burt” (“We ain’t got a lot and I don’t want gods plan. Is it 25 pound a month for the handset and free calls to the promised land?”) e “Subtraction”, in cui si dimostra l'impossibilità di cambiare il mondo, perché ne siamo complici fino alle tasche, o proprio a partire da esse. Il testo infatti gioca sul doppio significato (cambiamento/spiccioli) della parola change, affermando che “the only change I like sits in my pocket, I’m a consumer”, mentre i pattern martellano senza sosta, con la sola eccezione di un break vagamente sospeso e aereo, buon esempio della tridimensionalità di Fearn.
Lo spessore produttivo del disco si esprime nei richiami goth e post-punk dell'eccellente “OBCT”, un atto di accusa contro la middle-class e gli status symbol, tra marcate linee di basso e il cameo di un kazoo.
Il basso è protagonista anche dell'inquietante visione dipinta da “Policy Cream”, mentre in “Discourse” echi tribali e funk – quasi alla Talking Heads – accompagnano un'ammissione di totale incapacità nell'affrontare e comunicare le proprie emozioni, ben esemplificata dai versi “We never touch the real feelings, just the empty discourse”. Fearn non lavora bene solo sui singoli suoni, ma anche sui dettagli e sui contrasti, pur rimanendo autentico e grezzo: gli snervanti “ding” di “Flipside” ne aumentano, l'aggressività, mentre nonostante i ritmi sostenuti, la conclusiva “Negative Script” è avvolta da un'affascinante e oscura malinconia. Un sentimento ricorrente in “Eton Alive”, che tuttavia cade nella disperazione in “Top It Up”, uno dei suoi episodi chiave: dalle sonorità secche, rumorosa e ritmicamente prossima a una jungle stravolta, la traccia ospita forse il verso più tetro della partita: “Two lines on the table at a fucking funeral for somebody who got sick of two lines on the table”. Con sintesi meravigliosa Williamson dipinge un'altra debolezza, questa volta di un'intera generazione – la sua – che non è riuscita a uscire del tutto dal consumo abitudinario di stupefacenti cominciato con il boom delle droghe sintetiche ricreative tra gli anni '80 e '90. Ma a onor di cronaca dobbiamo dire che l'autore e musicista inglese è completamente uscito da ogni tunnel per entrare in palestra e sfoggia un'energia sarcastica e travolgente: la già citata “Flipside” e l'altro singolo “Kebab Spider” confermano la statura di una delle formazioni più interessanti e sincere dell'attuale scena d'Oltremanica.
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