Laurie Anderson incontra il Kronos Quartet e usa la voce "colta" del quartetto d’archi per raccontare l’uragano Sandy, il concetto di perdita, la potenza del linguaggio.
Inizia come un respiro flebile, un suono che si sdoppia e si fa via via più cupo e corposo.
Inizia con un presagio di un evento che va preparandosi all’orizzonte, una minaccia che il quartetto d’archi del Kronos Quartet evoca con grande esattezza. C’è qualcosa di mesto e assieme potente nei trenta frammenti musicali che compongono “Landfall”, una tristezza pacata che non sconfina mai nel dramma, ma anzi si trasforma in una forma inusuale di bellezza, un processo di trasfigurazione che sfocia in un sentimento che somiglia se non alla serenità, per lo meno all’accettazione. “Landfall” è il suono della perdita: delle persone che amiamo, degli oggetti che abbiamo accumulato nel corso di una vita, delle specie animali estinte, delle costellazioni che non conosceremo mai, di questo e di tutto. Laurie Anderson e il Kronos Quartet riescono a rendere questo suono poetico e vibrante.
L'artista avant-garde e il quartetto d'archi più cool d'America non avevano mai collaborato l’una con l’altro. Una cosa li accomuna: non sono soliti distinguere fra ciò che è “colto” e ciò che è “popolare” ed è anche la loro capacità di giocare su più tavoli a rendere “Landfall” speciale. Il Kronos ha commissionato a Anderson la composizione. Non conoscendo i principi della scrittura per quartetto d’archi, lei ha lasciato passare molti anni prima di dare il via alla collaborazione e mettere assieme uno spettacolo multimediale, in cui un software trasformava le note suonate sul palco in testi, e ora un disco in cui i suoni di violini, viola e violoncello si fondono in modo impeccabile con tastiere e campionamenti – una fusione fra strumenti acustici, elettronici e software cui sovrintese anche Lou Reed, così racconta l’artista americana nelle note di copertina.
Sandy, il terzo uragano più distruttivo che abbia colpito gli Stati Uniti, si è abbattuto nella East Coast nel 2012 quando Laurie Anderson stava già lavorando al progetto.
Le ha fornito un nuovo contesto, oltre a un titolo per l’album – il termine “landfall” indica l’approdo di un uragano sulla terraferma – e per alcuni strumentali. Il tema delle conseguenze dell’uragano si è sovrapposto a quelli che si erano già delineati: la perdita e la capacità del linguaggio di descrivere ed evocare ciò che esiste e ciò è svanito, salvandolo dall’oblio. Ma al di là dei temi sottesi, “Landfall” è musica che attira in modo inesorabile in una narrazione libera, cupa e seducente fatta di frammenti musicali e una mezza dozzina di spoken word, per un totale di trenta episodi di durata variabile per lo più fra uno e tre minuti (contemporaneamente al disco esce il libro retrospettivo di Laurie Anderson “All the Things I Lost in the Flood: Essays on Pictures, Language and Code”).
Laurie Anderson e il Kronos Quartet fondono le loro “voci” in modo perfetto, le usano per raccontare la mancanza come un sentimento che ha qualcosa di funereo e assieme contemplativo. Le composizioni sono nate da loop di Anderson all’Optigan che poi sono stati suonati ed espansi dal Kronos con la sua fenomenale capacità espressiva. Grazie al lavoro del fonico Scott Fraser, il suono dei loro strumenti ha una presenza magnifica. Negli spoken word Anderson, da consumata storyteller, racconta piccole storie, le strade che si trasformano in fiumi neri durante l’uragano e un karaoke mal funzionante in un bar olandese, un discorso di Lincoln e un libro sulle specie animali estinte, natura e sogni. E per 70 minuti è davvero come essere risucchiati in una dimensione onirica che lascia una sensazione di spossatezza e assieme di illuminazione.
“Landfall” è ipnotico e meditativo e dotato di una bellezza ora intimidente, ora luminosa. È struggente pur essendo misurato, è poetico anche quando Anderson racconta piccoli episodi apparentemente insignificanti. E la musica non è mai frutto di una scrittura retorica, nonostante i temi rappresentati. Finisce con l’immagine dell’artista che, passato l’uragano, scende nel seminterrato della sua abitazione newyorchese e vede gli oggetti cumulati in anni di performance galleggiare sull’acqua: vecchie tastiere e proiettori, libri e pezzi di scenografie, il passato che si dissolve sotto i suoi occhi. “E ho pensato: che bellezza, che magia, che catastrofe”.
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