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Ivan Cattaneo: “Io, fatto fuori come Mia Martini e Giuni Russo”

L'artista torna dopo vent'anni. E ne ha per tutti, da Achille Lauro a Lucio Corsi. Tranne uno.
Ivan Cattaneo: “Io, fatto fuori come Mia Martini e Giuni Russo”

«A Londra, alla fine degli Anni ’70, frequentavo il produttore di David Bowie, Alan Edwards. Un giorno gli feci ascoltare alcune idee alle quali stavo lavorando, dei brani con dei vocalizzi particolari, roba aliena per la musica di quel periodo. Non mi sembrò molto entusiasta. Quando Nanni Ricordi, il papà di tutti i cantautori italiani, mi portò a Roma, gli feci ascoltare le stesse cose. Nella stanza della Ricordi entrò Lucio Dalla e Ennio Melis gli chiese: “Lucio, che ne pensi?”. E lui: “Questo ragazzo fa quello che vorrei fare io, ma che voi non mi permettete di fare”. Poi salì su una cattedra e con un righello cominciò a dirigermi come un maestro d’orchestra. Mi chiedo ancora se mi stesse prendendo in giro o no». Ivan Cattaneo memories. Ha contribuito a creare il fenomeno Anna Oxa (fu lui l’artefice del look androgino con il quale la cantante di origini albanesi si presentò al grande pubblico al Festival di Sanremo 1978, con “Un’emozione da poco”), è stato uno dei primi in Italia a fondere musica pop, elettronica, teatro e arte visiva (portando nel nostro Paese la lezione di David Bowie e dei Talking Heads), ha contribuito negli Anni ’80 a quel revival degli Anni ’60 che poi ha conquistato anche la tv e il cinema (andate a riascoltare “Duemila60 Italian Graffiati” del 1981, con il quale rivisitò in chiave ska e nu-beat le varie “Una zebra a pois”, “Nessuno mi può giudicare”, “Abbronzatissima”), è stato un simbolo di libertà sessuale e un precursore della cultura queer in Italia. Ora a 72 anni il cantautore bergamasco torna sulle scene dopo vent’anni con un nuovo album di inediti. Anzi, due. Lo scorso 31 ottobre è uscito “Due.I”, bizzarro progetto multimediale diviso in due parti, “Titanic-Orkestra” e “Un mammifero che canta”, con 24 canzoni raccolte nel corso di questi due decenni, un dvd e pure un romanzo di 130 pagine. «È il mio testamento», dice.

Nel senso che con questo progetto chiudi la tua carriera?
«Sì. Discograficamente non farò mai più una cosa così complessa. Ho lavorato a questo progetto per otto anni. "Titanic-Orkestra" è una sorta di Spoon River sul mare: è un concept album che reinterpreta la vicenda del transatlantico attraverso 24 personaggi immaginari, ognuno dei quali prende voce in una delle 24 canzoni. È una metafora dei giorni nostri: lì l'esaltazione della velocità, oggi quella dell'intelligenza artificiale. Pensiamo di essere liberi, ma siamo schiavi di un'immagine dietro l'altra. Capovolgendo il volume si entra invece nella seconda parte, "Un mammifero che canta", autobiografia che ripercorre i miei 50 anni di carriera. Ho raccolto anche poesie datate 1967, scritte quando avevo 14 anni. Aspettavo l’interessamento di un discografico giusto, lungimirante. L’ho trovato in Marco Rossi di Azzurra Music. Con lui non mi sono sentito più orfano, come lo ero dai tempi della scomparsa di Nanni Ricordi. I soldi, comunque, ce li ho messi pure io: tutta la parte musicale me la sono autoprodotta».

Chi te l’ha fatto fare, oggi che il fisico è praticamente morto e sulle piattaofme di streaming funzionano solo rapper e trapper?
«Volevo lasciare qualcosa ai miei fan. E poi chi se ne fotte del mercato. Sarei ridicolo se a 72 anni volessi mettermi in competizione con Annalisa e Fedez. Io sono orgogliosamente vecchio. Tanto oggi neanche più la Nannini o la Vanoni fanno dischi di successo. Si deve fare musica solo per il piacere e il gusto di farla».

Non hai provato a bussare alle porte di qualche multinazionale?
«No, perché prevedevo già che mi avrebbero risposto di no. Ero molto amico di Roberto Rossi, ex dirigente della Sony. Mi diceva: “Ivan, i tuoi progetti sono interessanti, ma ho le mani legate”».

Nel disco c’è anche la tua versione de “La carezza che mi manca”, che Patty Pravo avrebbe dovuto portare in gara al Festival di Sanremo nel 2019. Perché fu scartata?
«Perché le proposero di andare in gara in coppia con Briga, con una canzone scelta dal discografico. Fu costretta ad accettare dei compromessi che poi si rivelarono un bagno di sangue. Forse sarebbe stato meglio, per lei, se avesse scelto la mia canzone».



Tu a Sanremo non hai provato a candidarti negli ultimi anni?
«No. So come funzionano le cose, lì: ti prendono solo se hai una storia recente».

Che ne pensi del vincitore dell’ultima edizione, Olly?
«Che è bono (ride). Ha una fisicità pazzesca».

D’accordo, ma artisticamente?
«Ma che ne so, non so neanche cosa cantasse. L’ultima canzone che mi è piaciuta al Festival di Sanremo, comunque, è “Cenere” di Lazza, prodotta dal mio amico Dardust, che in passato ha rivisitato la mia “Giochi d’insetti”».

E di Lucio Corsi, la rivelazione dell’ultima edizione?
«Mah. È un flashback vintage degli Anni ’70. Bravo: ricorda un po’ me e Alberto Camerini. Ma arriva cinquant’anni dopo».

Il fenomeno Achille Lauro come te lo spieghi?
«Non me lo spiego. Non so nemmeno se sia originale. Se proprio devo scegliere, preferisco un Lucio Corsi che si mette i pacchetti di patatine nelle spalline della giacca a un Lauro dietro al quale ci sono grossi marchi di moda: non si sa più dove sia l’artista e dove sia il manichino che diventa testimonial del brand. Io sono sempre stato molto più naïf. E lo sono ancora oggi, a 72 anni».

L’Italia ti ha tarpato le ali?
«Me lo dice anche Patty Pravo: “Se fossi nato in Inghilterra…”».



Reinterpretare “Una zebra a pois” e altre hit degli Anni ’60 è stata più croce o più delizia?
«Croce. Perché ancora oggi vengo catalogato solo come quello degli Anni ’80 e della Zebra. Sia chiaro: amo la Zebra, che che mi ha fatto mangiare sino ad oggi, del resto scritta da quel grande jazzista che era Lelio Luttazzi e cantata in prima istanza dalla grande Mina. Ma sarebbe andata bene se avesse avuto un successo medio, quella cover. Invece mi sentii imprigionato. E la mia identità di cantautore fu spazzata via. Solo pochi mi hanno davvero compreso e hanno lottato insieme a me».

Chi?
«Penso allo stesso Nanni Ricordi. Gli altri mi hanno ostacolato».

Tutti?
«Caterina Caselli no. Era mia complice. Ma ad un certo punto lei stessa cominciò a vedere in me solo un fenomeno da revival».


In che rapporti siete oggi?
«Ci sentiamo ogni tanto, per telefono. Sono andato a vedere il suo docu-film. Peccato che tra tutti gli artisti che ha lanciato, da Bocelli in poi, non mi abbia menzionato. E come me gli Avion Travel e Gerardina Trovato. Quantomeno ero in buona compagnia, tra i non-citati».

Casi come quelli di Sangiovanni e Angelina Mango che sensazioni ti suscitano?
«Mi rivedo in loro e provo empatia. Ebbi anche io un esaurimento nervoso all’epoca del successo. Nel nostro lavoro bisogna saper dir di no, farsi rispettare. Lo diceva anche la grande Giuni Russo. Ma se dici no poi risulti antipatico e ti fanno fuori. È quello che è successo a lei e ad altri grandi, come Mia Martini. Io abbandonai il mondo della musica e mi misi a fare il pittore».

Creativi ne vedi, in giro?

«No. In giro sento praticamente la stessa canzone: il pop italiano è ormai un gigantesco karaoke. Secondo me la vera arte non è avere una bella voce, che è pressappoco come avere un dono naturale, come avere un bel nasino o un bel culo. La vera creatività è l’inventare mondi, storie e nuovi modi di fare musica e realizzare suoni. Ecco allora spiegato il motivo per cui una Madonna o un Jovanotti o un Guccini, che pure non hanno una gran voce, hanno con la loro musica lasciato un segno».

È vero che uscirà anche un libro autogbiografico?
«Sì. Senza il solito raccontare edulcorato su sé stesso e sui colleghi. É pronto. Si intitola “Falsi nomi, storie vere”. Perché se faccio i nomi, mi arrivano le querele».
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