Ivano Fossati: “La mia storia con Oscar Prudente”

“Storie e canzoni di Oscar Prudente”, il nuovo libro di Alfonso Amodio e Ferdinando Molteni che esce oggi nelle librerie per l’editore Coniglio, ripercorre attraverso una conversazione con Prudente dei due autori la carriera del musicista e produttore che ha da poco superato il traguardo degli ottant’anni. L’introduzione del libro è costituita da un’intervista di Amodio e Molteni a Ivano Fossati, in cui il cantautore riconosce a Prudente il ruolo determinante che ha avuto nell’inizio della sua attività nel mondo della musica. Per gentile concessione dell’editore, ve la propongo qua di seguito.
Un pomeriggio d’estate. In una bella casa di Leivi, alle spalle di Chiavari, a due passi da Genova. Con Ivano Fossati e Mercedes Martini. Un bellissimo e grande cane ci annusa e ci accoglie. In salotto s’intravvede un pianoforte con appoggiata sopra una chitarra elettrica. La libreria racchiude libri d’arte. Quelli grandi e pieni di illustrazioni.
Quando si parla di Oscar Prudente con Ivano Fossati le domande sono superflue. Anche se qualche volta le dobbiamo fare.
«La mia storia con Oscar – comincia Fossati – mi sembra un vero e proprio romanzo di formazione. Ho la sensazione abbastanza netta che la mia vicenda artistica, dopo l’episodio dei Delirium, probabilmente sarebbe finita, si sarebbe fermata. Invece c’era Oscar, con il quale avevamo cominciato a scrivere qualche canzone. Perché lui si era semplicemente accorto che io sapevo scrivere i testi. Ma era una scommessa veramente improbabile, lui era già un autore affermato che aveva visto questo ragazzo di circa 19 anni, e aveva capito che avrebbe potuto scrivere i testi delle canzoni. Attenzione: i testi, che era una merce rara. Un giovane di 19 o 20 anni che sapesse scrivere i testi delle canzoni, allora era veramente rarissimo. Oscar questo lo capì subito e senza né se né ma mi prese per il bavero e io mi sono ritrovato nell’ambiente della musica che conta in un attimo. Mi strappò da Genova, dove probabilmente la mia strada si sarebbe arenata, e mi portò a Milano, dove in pochissimo tempo ho incontrato Lucio Battisti, ho incontrato per la prima volta Fabrizio De André, ho incontrato tutti, Ornella Vanoni e tutti gli autori più importanti come Giorgio Calabrese, e tutti hanno conosciuto me.
Quindi è chiaro che io devo molto a lui. Perché dicevo prima che sembra un romanzo di formazione? Perché stavamo proprio insieme, insieme nel senso che andavamo in giro insieme, avevamo le fidanzate e passavamo molto tempo nella Riviera di Ponente, conoscevamo gli artisti, per me quello era un mondo meraviglioso».
Anni avventurosi che portarono a risultati grandiosi.
«Molto spesso – racconta Fossati – suonavamo per pagarci le cene. E altro. Facevamo una vita quasi da hippie. Non eravamo veramente degli hippie, ma gli somigliavamo un po’. E poi, cosa ancora più importante, Oscar mi ha introdotto nell’idea, che io non avevo assolutamente, della musica per il teatro. Lui lavorava già per il teatro, aveva lavorato con Dario Fo, aveva lavorato con il Teatro Stabile di Genova e quello di Torino, con il Teatro della Tosse a Genova, tutte cose che io non conoscevo, tutte cose che mi sembravano distanti da me perché io avevo un’idea della musica molto più rock, molto più pop. Amavo i gruppi, mi piacevano gli Who, mi piacevano i Led Zeppelin, avrei messo chitarre elettriche dappertutto, invece Oscar mi ha insegnato che c’erano altri orizzonti, altri modi di guardare la musica, per esempio soprattutto nel rapporto tra il testo teatrale e la musica, cioè quando la musica si deve mettere al servizio del testo teatrale. Io non l’ho capito subito, ho fatto fatica».
L’avventura della musica per il teatro è stata, in ogni caso, decisiva.
«Quando Oscar faceva tutte le vocine nelle colonne sonore che facevamo per i cartoni animati di Emanuele Luzzati, faceva delle musiche buffe che poi si sono rivelate perfette. Lui sapeva come fare e me l’ha insegnato, mi ha insegnato il rapporto tra testo e musica, a volte erano canzoni, a volte semplicemente musiche, per cui devo moltissimo a lui perché tutti questi insegnamenti che ho avuto intorno ai vent’anni o poco più, mi sono poi serviti dopo, nella parte che è venuta dopo nella mia carriera, nelle canzoni che ho scritto. Io ho sempre tenuto conto, dopo, del rapporto fra testo della canzone e quello che doveva essere la musica. Ma io questa cosa l’ho imparata da lui. Per questa ragione sono convinto, molto convinto, che Prudente sia molto più di un cantautore e che sia riduttivo al massimo etichettarlo come cantautore. Perché è molto di più, e nella sua vita musicale è stato molto di più, anche per questioni di generosità. È un uomo che ha talmente tante idee, è talmente dirompente – e lui era una persona dirompente – che probabilmente non si è neanche reso conto di quanto ha regalato agli altri, di quante idee ha regalato. Io, nel mio caso lo so, e lo dico, lo riconosco. Devo veramente molto a Oscar».
Tu nell’ambito della canzone d’autore vieni considerato il “più musicista”. Con Oscar questo rapporto si è ribaltato e tu sei diventato sostanzialmente un autore di testi, molte delle vostre canzoni, le più fortunate, hanno le tue parole e la sua musica. Come convive il musicista che sei con il fatto di essere, in questo caso, soltanto autore di testi?
«Inizialmente questa cosa mi faceva un po’ soffrire, perché da un lato ero molto felice di poter lavorare con lui, anche perché lui è un compositore di musiche raffinato. Non è mai stato uno che andasse per le linee grosse, cercava sempre soluzioni raffinate il che mi piaceva, ma era all’inizio. Poi è evidente che io, anni dopo, mi sono messo a scrivere le musiche perché avevo voglia di farlo, però tutto il lavoro fatto insieme a Oscar l’ho accettato com’era, l’ho accettato per il semplice fatto che mi sembrava una opportunità formidabile e perché lui è comunque bravo, è uno che anche per le migliaia di idee che ha al giorno e che poi sfociano nella sua musica, alla fine è molto originale nella scrittura. Quindi mi andava bene, mi limitavo, facevo metà del mio mestiere, ma lo facevo volentieri».
Voi avete fatto un disco insieme, “Poco prima dell’aurora”, del 1994. Nel tuo libro Tutto questo futuro del 2011, curato da Renato Tortarolo, si legge che fu un lavoro non fortunatissimo per problemi di etichette discografiche, Fonit Cetra e Numero Uno. Che ricordo hai di quella esperienza?
«Nel farlo mi ricordo che ci siamo molto divertiti. Mi ricordo anche un particolare: noi stavamo lavorando in uno studio di Milano, in via Barletta, e nella porta accanto c’era Battisti che stava registrando uno dei suoi album, e quindi c’era un po’ di contatto, stavamo un po’ insieme».
Perché non ebbe fortuna?
«Non è stato molto fortunato perché abbiamo tentato una cosa molto difficile, mettere insieme due case discografiche, tra l’altro le più diverse che si potessero immaginare. Io avevo ancora un contratto con la Fonit Cetra, che era purtroppo la cosa più “statale” e arretrata di tutto il panorama, lui aveva un contratto con la Numero Uno che, al contrario, era l’etichetta discografica più avveniristica in quel momento. Per cui le due cose non potevano funzionare, avremmo dovuto capirlo subito che non potevano funzionare. Il disco fu distribuito una parte dalla Rca, se non ricordo male, e una parte dalla Fonit. Una cosa folle, per cui fu un disastro totale. Però il ricordo è molto bello, perché intanto lavoravo con lui, che era sempre divertente. Di Oscar, nel tanto tempo che siamo stati insieme, non mi ricordo un’ombra. Provo a ricordarmi una volta che abbiamo litigato o avuto una divergenza, ma non me la ricordo».
Tu hai accennato alla poliedricità di Oscar. Il suo toccare tanti territori forse non gli ha giovato troppo dal punto di vista della comunicazione. Oggi siamo abituati a incasellare ogni cosa, a definire ogni cosa, a mettere etichette.
«Le definizioni sbrigative non vanno bene per lui. Bisogna capire – e spero che voi scaviate questo concetto – che lui ha una dimensione più grande. In questi piccoli cassetti che vengono costruiti e che poi ci mettono tutti là dentro, lui non ci sta. Non ci sta perché lui aveva già nel 1990 una visione della musica rispetto alle immagini, rispetto alla costruzione musicale legata all’immagine che poi è venuta fuori quindici anni dopo. Quando – faccio un esempio per essere chiari – quando ci fu quella messa in scena dei Delirium in quell’inutile Sanremo, tutta quella coreografia fu un’idea di Oscar, noi non l’avremmo mai avuta, non ci interessava, non ci avremmo mai pensato, perché appunto lui vedeva la musica, e anche la canzone, in funzione di una teatralizzazione. Lui, lavorando già da anni con il teatro, tendeva a teatralizzare tutto. E quel passaggio dei Delirium, che poi si è visto anche troppo, è un vero momento di teatro, dove tutti stavano interpretando qualcos’altro, qualcosa che non eravamo, stavamo tutti recitando una parte. E quando in un’altra occasione, poi magari ve la racconterà lui, abbiamo messo in piedi un piccolo spettacolo, un piccolo concerto, io e lui, che non ebbe alcuna fortuna, abbiamo fatto una rappresentazione sola, però era ugualmente scenografato, pieno di movimento, era teatralizzato».
Conclude Fossati:
«Lui aveva costruito, da regista, su se stesso e su di me un’ora e un quarto di spettacolo assolutamente teatrale basato sulle canzoni. Ed eravamo solo nel 1993. Lui era veramente molto avanti. Quella cosa avrebbe avuto probabilmente successo cinque o dieci anni dopo. Per questa visione sua, che lui aveva sempre, almeno in quegli anni. Era come se lui trasportasse sempre quello che faceva nel teatro. Me lo ricordo in tutte le cose che ha fatto, le pubblicità, la sigla di “Domenica Sprint”, c’è sempre qualcosa di nuovo musicalmente, mi ricordo ovviamente il lavoro che ha fatto con Dario Fo, c’è sempre qualcosa che torna lì, a quella sua matrice, che evidentemente lo ha segnato culturalmente. Ed è per questo che insisto nell’affermare che lui è qualcosa di più. È di più».