Janis Joplin, sepolta viva nel blues

Il 4 ottobre 1970, in una stanza d’albergo di Los Angeles, il rock perdeva una delle sue voci più belle. Uno spirito ribelle e ferito, libero e dannato. Cinquantacinque anni dopo la sua morte, l’eco di Janis Lyn Joplin vive ancora in chi non si accontenta di questo mondo e dei suoi limiti.
I primi confini da abbattere sono attorno a lei fin dalla nascita, a Port Arthur, che definisce «prigione natale». L’ambiente conservatore e maschilista texano sta stretto a una ragazza che rappresenta una femminilità nuova, non addomesticata, pronta a urlare le fragilità e i desideri di una generazione che sogna la rivoluzione. Di quell’epoca incarna tutto: slanci e contraddizioni, sogni ed eccessi. A scuola – prima alle superiori, poi al college – è derisa per il suo aspetto e per gli ideali di uguaglianza in cui crede. Tra i banchi di scuola nascono i primi demoni che la porteranno a cercare conforto in alcol e droghe, fino a inabissarsi. Fortunatamente, però, scopre un altro balsamo per l’anima: la musica. Ed è da lì che arriveranno le consolazioni più belle.
Comincia esibendosi nei country club di Houston e di altre città del Texas. Non appena racimola abbastanza denaro, prende un bus per la California. È l’era hippy e Joplin entra a far parte di diverse comuni, stabilendosi a San Francisco per alcuni anni. Lì diventa la vocalist di “Big Brother and the Holding Company”, band con cui in poco tempo raggiunge un successo tale da convincersi che la carriera solista non è poi un sogno così folle. Nel 1968, le silhouette delle icone blues rock sono ben delineate: Mick Jagger. Jim Morrison. Jimi Hendrix. Janis Joplin. Con gli ultimi due, Janis condividerà anche il destino: entrare nel circolo tristemente noto come “club dei 27”, di cui fanno parte gli artisti morti ad appena 27 anni, schiacciati dal successo e dall’autodistruzione.
Il mondo è ancora sotto shock per la morte di Hendrix quando il 4 ottobre del 1970 arriva la notizia che al Landmark Motor Hotel di Hollywood, California, è stato trovato il corpo senza vita di Janis Joplin. Overdose di eroina. Una perdita devastante, ancor più lacerante se si pensa che non ha fatto in tempo a vivere la pubblicazione del suo grande capolavoro: “Pearl” esce postumo, nel gennaio del 1971, e resta al primo posto della classifica per nove settimane. Succede spesso, di fronte alle morti premature: sconvolgono e spingono il pubblico a dare all’artista il successo che avrebbe meritato in vita, come una sorta di tardivo e imbarazzato mea culpa. Fu lo stesso per Jim Croce, e per tanti altri. Ma l’eredità che la Perla lascia è talmente potente da trascendere qualsiasi concetto di tempo.
È passato più di mezzo secolo dalla sua scomparsa, eppure quella voce fa male come ne faceva nei Sessanta, a Woodstock. Dai classici, “Piece of my heart”, “Me and Bobby McGee”, “Cry baby”, ai tesori più nascosti, “Turtle blues”, “One good man”, “Work me, Lord”. Corde vocali che sono insieme ruggine e miele, furore e tenerezza, malinconia blues e fuoco psichedelico. Ruvida e viscerale, Janis ci insegna che l’imperfezione sa diventare bellezza; che la femminilità può, deve e continua a essere rivoluzionata, anche e soprattutto quando viene ostacolata; che la musica è carnale, che sul palco ci si consuma, che in una canzone a volte si trova un distillato di disperazione da maneggiare con cura, e da celebrare per sempre.
Alcune settimane prima che le sue ceneri fossero sparse nel Pacifico, Joplin aveva acquistato la lapide della tomba di Bessie Smith, star del blues statunitense a cavallo tra gli anni Venti e Trenta, nonché sua musa ispiratrice. Ci fece incidere una frase: “La più grande cantante blues del mondo non smetterà mai di cantare”. Come se sapesse che, di lì a poco, qualcuno avrebbe detto lo stesso di lei. Un destino già scritto nel quinto e profetico brano di “Pearl”: Buried alive in the blues. Sepolta viva nel blues.