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Brad Mehldau, quando il jazz aiuta a riscoprire il rock

Il pianista dedica un album a Elliott Smith, grande cantautore americano: l'intervista
Brad Mehldau, quando il jazz aiuta a riscoprire il rock
Credits: Yoshika Horita

Alla fine degli anni ’90 Brad Mehldau ha fatto qualcosa che, all’epoca, sembrava quasi un’anomalia nei rigidi codici del jazz: accanto agli standard ha cominciato a suonare brani dei Radiohead, dei Beatles, di Nick Drake. La canzone pop-rock è entrata nel repertorio pianistico jazz con una naturalezza che oggi diamo per scontata: Mehldau ha costruito una carriera varia, che comprende piano solo, trio, composizioni orchestrali: ma quelle “cover” - termine improprio - lo hanno reso unico e sono diventate un modello per molti altri artisti.
Dopo l’album dedicato ai Beatles di 4 anni fa, e in mezzo a diversi altri progetti, Mehldau torna con “Ride into the Sun”, in uscita il 29 agosto per Nonesuch Records: un disco interamente dedicato alle canzoni di Elliott Smith, grande cantautore americano morto suicida nel 2003, a soli 34 anni.
Figura centrale per l’indie-folk e per il songwriting americano degli anni ’90, Smith viene celebrato e reinventato: Mehldau ne esalta la scrittura, le armonie, con un disco che mette assieme piano, arrangiamenti orchestrali e il suono di una band: ci sono Chris Thile alla voce e al mandolino, Daniel Rossen (Grizzly Bear) alle chitarre e voce, Matt Chamberlain alla batteria. In scaletta, oltre a classici come “Sweet Adeline”, ci sono anche “Thirteen” dei Big Star (già interpretata da Smith) e “Sunday” di Nick Drake, nume tutelare dell’intero progetto.
Lo abbiamo incontrato a Milano: è una rara occasione per parlare con uno dei musicisti più affascinanti e inclassificabili degli ultimi decenni.

Frequenti da molto tempo il repertorio pop-rock in chiave jazz, e hai suonato in passato brani di Elliott Smith: perché un album completo dedicato al suo repertorio?
In parte è dovuto a un’esperienza molto personale: circa quattro anni fa sono stato vittima di un episodio depressivo profondo. Avevo già avuto a che fare con questo problema nel corso della mia vita: quando ho incontrato Elliott e la sua musica per la prima volta, stavo uscendo anch’io da un periodo buio. Ho dovuto interrompere tutto, mi sono preso un po’ di tempo libero: ho sentito di capire la sua musica anche in modo più profondo, visto quello che aveva passato. Mi sono detto che forse era arrivato il momento di fare un disco per onorare la sua eredità.

Rispetto ai Beatles, ai Radiohead, ai nomi che fanno parte del tuo repertorio, Elliott Smith può sembrare un nome di nicchia.
Non ho mai smesso di ascoltare la sua musica negli ultimi 30 anni: ha avuto una grande influenza su di me, su come la scrivo e anche su come suono il piano. Se parliamo di testi, l’esperienza di quattro anni fa mi ha spinto ad ascoltare le sue canzoni in maniera diversa. Ma musicalmente non era un semplice cantautore: mi piacciono in particolare le sue armonie – è qualcosa che mi ha sempre commosso immediatamente fin dalla prima volta che l’ho sentito.

Può sembrare strano che un semplice autore di canzoni possa influenzare un pianista jazz come te. 
Sì, ma è piuttosto complesso. Ha un modo di suonare la chitarra unico, come Neil Young, o come Nick Drake o Joni Mitchell. C’è un approccio quasi orchestrale, c’è una profondità nell’armonia che è più di tre semplici accordi.

Il disco comprende delle tue composizioni originali, basate sulla sua musica: come sono nate?
Il primo arrangiamento orchestrale che ho fatto è stato “The White Lady Loves You More”, che si trova a metà del disco. Finito l’arrangiamento, ho continuato a scrivere qualcosa che assomiglia a una coda. Poi ha continuato ad andare avanti. È qualcosa che ho fatto altre volte con brani pop in un contesto di solo piano: suono la canzone, poi vado avanti per 10 minuti: è un’ispirazione emotiva.

L’album non è una semplice raccolta di brani di Elliott Smith: oltre alle tue composizioni ci sono “Thirteen” dei Big Star e un brano di Nick Drake. Come mai?
Quella dei Big Star è una canzone che ho sempre amato. Solo 3 anni fa ho scoperto la versione di Elliott Smith: ha un significato particolare nella sua storia, racconta la perdita dell’innocenza, una cosa che per lui forse è stata ancora più dolorosa. Mentre Nick Drake è stata una grande influenza su Elliott Smith, anche proprio nelle armonie. Fino a non molto tempo fa anche Nick Drake non era poi così conosciuto, poi è stato riscoperto grazie a uno spot di un’automobile…

“Ride into the sun”, il titolo del disco, arriva da una frase di “Colorbars”. Perché questa in particolare per il titolo?
Penso che sia un messaggio meravigliosamente ambivalente tra l’amore e la tristezza: non è chiaro se si parla di salvarsi o di morire. È in questo spazio che è vissuta la sua musica. Ed è quello che mi attrae in un brano, che sia una canzone, una sonata di Schubert o di Wagner o come canta Thom Yorke: hai questa sensazione di bellezza ma anche di paura e fragilità.

Nella tua carriera sei passato dal rileggere dai Massive Attack ai Soundgarden, ai Radiohead, appunto. Cosa ti attrae in una canzone?
Certe volte amo una canzone ma non riesco a trovare qualcosa che sia interessante per me: quando suoni un brano devi portare il pubblico in una sorta di altro universo. Cerco qualcosa dove posso esprimere la mia voce e posso fare qualcosa di nuovo.

Quando hai iniziato a fare queste cover era una novità: il jazz era legato agli standard, al grande canzoniere americano. Il tuo era un modo di dire che anche il pop e il rock erano ricchi di grandi composizioni. Oggi non è diventata una moda? Hai cambiato il tuo approccio?
Forse una cosa che è cambiata è che apprezzo cose diverse. Quando ho inciso il disco dedicato ai Beatles 4 anni fa ho scoperto che non tutto deve essere enorme, wagneriano. Certe volte bastano 3 minuti e non serve neanche un’improvvisazione o un assolo: è bello anche distillare, cercare l’essenza della canzone. Nel jazz si è spesso troppo legati al fatto che devi per forza improvvisare… Forse dobbiamo solo suonare una canzone bellissima.

C’è una tua rilettura a cui sei particolarmente legato?
Non saprei scegliere. Ma è interessante perché le persone reagiscono a cose diverse e oggi le canzoni diventano virali senza che tu te ne accorga. Molti mi associano alla mia versione di “Blackbird” dei Beatles: è bello, ma non che sia diventato qualcosa che mi definisce. Per me è bello ciò che ho fatto ma non è l’unica cosa che ho fatto: ho anche suonato e inciso Bach…

Dal vivo suoni spesso “Estate” di Bruno Martino: come l’hai scoperta?
È una canzone interessante, è di fatto uno standard jazz, che ho ascoltato suonata a New York da gente come Tom Harrell e Kenny Barron e poi c’è la versione incredibile di João Gilberto. Uno dei miei migliori amici è un ragazzo italiano che mi ha raccontato la storia e mi ha mostrato l’originale. È una canzone meravigliosa perché è una canzone triste: è ciò che la rende davvero diversa da altre canzoni che parlano d’estate.

Nella tua carriera passi dal trio al piano solo, a progetti orchestrali e complessi.
È solo che ho un ottimo manager con cui lavoro da decenni: abbiamo questi incontri dove guardiamo i prossimi due anni e pianifichiamo cosa far uscire, cosa suonare e quando, senza esagerare. Anche passare da un progetto all’altro non è facile: ho alcuni amici che sono pianisti classici di grande livello, li ascolto e li guardo perché è pazzesco come riescano a passare dal suonare Rachmaninov un mese e Prokofiev quello dopo…

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