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This Is Not A Drill: Live From Prague, il saluto di Roger Waters

Nino Gatti ha visto per noi l'anteprima di “This is not a drill: Live from Prague - The movie”
This Is Not A Drill: Live From Prague, il saluto di Roger Waters

C’è ancora chi crede davvero nei tour d’addio? Nel 2022 Roger Waters aveva annunciato “This Is Not A Drill” come il suo “primo tour d’addio”, ma tutto fa pensare che possa essere stato anche l’ultimo. Tra luglio e ottobre di quell’anno ha attraversato Stati Uniti e Canada, per poi approdare in Europa nella primavera del 2023. Il tour si è concluso alla fine del 2023 con una manciata di date in Sudamerica. Da allora, il silenzio. Nessun segnale, nessun annuncio. A settembre Roger Waters compirà 82 anni, e l’ipotesi di un ritorno sul palco appare sempre più remota. Proprio per questo, la pubblicazione, prevista per il prossimo 1° agosto, del live “This Is Not A Drill: Live From Prague” (il pre-order è già attivo a questo link) ha il sapore di un commiato. Non solo dai tour, ma forse da un intero modo di concepire lo spettacolo dal vivo: monumentale, coinvolgente, immersivo. Guardare la nuova versione di questo film mi ha provocato un’emozione duplice. Da un lato, la gioia di rivivere quei momenti indimenticabili - nel 2023 Waters aveva regalato all’Italia ben sette concerti, quattro a Milano e tre a Bologna. Dall’altro, una profonda malinconia: la consapevolezza che, molto probabilmente, non lo rivedrò mai più dal vivo. Questa mattina, entrando all’Anteo di Milano per l’anteprima, cercavo di contenere l’emozione. Ma è bastato poco. Roger Waters e il regista Sean Evans, collaboratore di lunga data, hanno saputo costruire un racconto visivo capace di restituire pienamente la magia di quello spettacolo: la potenza delle immagini, la forza della musica, l’impatto scenico caratteristici dei suoi concerti.

La genesi di questo film è nota. Il 25 maggio 2023, nel pieno del tour europeo, Waters decise di trasmettere in diretta il concerto alla O2 Arena di Praga, trasformandolo in un evento globale. Le riprese, firmate da Evans, furono proiettate in oltre 1.500 sale cinematografiche, in più di 50 Paesi nel mondo. Ora, quell’esperienza ritorna sul grande schermo (in Italia dal 23 al 30 luglio), con l’intensità e l’autenticità di un addio. Roger Waters ha scelto di rendere ufficiale quei due concerti, pubblicandoli non solo in DVD e Blu-ray, ma anche in un doppio CD e in una versione in vinile, distribuita su quattro dischi a 33 giri. Un dono prezioso per chi ha vissuto l’esperienza dal vivo e per chi desidera scoprirla oggi per la prima volta. Chi ha assistito alla proiezione cinematografica nel 2023 potrebbe pensare che si tratti dello stesso film. Niente di più sbagliato. Le immagini trasmesse in diretta all’epoca sono state rivisitate e arricchite unendo i filmati delle due serate: il montaggio è stato perfezionato, integrando riprese catturate dalle numerose telecamere utilizzate per documentare i due show. Il risultato? Una nuova versione dello spettacolo, più completa, più raffinata, più intensa. Una buona notizia per chi pensava di aver già visto tutto. Chi opterà per il Blu-ray sappia che i due concerti sono stati registrati in 8K, garantendo una qualità visiva straordinaria. Anche l’audio è stato completamente rimasterizzato, per restituire tutta la potenza e la raffinatezza del suono dal vivo. Uno degli elementi che ha reso leggendari gli spettacoli dei Pink Floyd - in particolare quelli dei tour di “Animals” e “The Wall” - è la meticolosa cura per ogni dettaglio: dagli effetti sonori alle soluzioni sceniche e visive. Dietro tutto questo c’era soprattutto Roger Waters. È lui che ha sempre guidato questa visione, trasportandola nei suoi spettacoli solisti con la stessa dedizione. Oggi, grazie alle possibilità offerte dalla tecnologia digitale, Waters ha potuto spingersi ancora oltre, costruendo show immersivi e spettacolari, senza compromessi. E questo concerto ne è la testimonianza.

Il (nuovo) film

Nel momento in cui cala il buio in sala e risuonano le prime note, sai già che Roger Waters non farà concessioni. Ti travolgerà con uno spettacolo audiovisivo senza scampo. Ma non è solo una performance. Guardando il film diretto da Sean Evans e ripercorrendo la scaletta del tour “This Is Not A Drill”, si percepisce chiaramente che ogni brano è lì per un motivo preciso. Ogni parola, ogni immagine, ogni suono proiettato sugli enormi schermi sopra il palco contribuiscono a costruire una narrazione potente: storica, politica, profondamente umana. È il racconto di un’intera vita. È Roger Waters che si mette a nudo, artisticamente e umanamente, per offrire al pubblico una testimonianza sincera e lucida del suo pensiero. Prima ancora che il concerto inizi, Waters prende la parola. È diretto, onesto, spietato. Sullo schermo compare un messaggio inequivocabile, letto con la sua voce: “Se sei una di quelle persone che dicono di amare i Pink Floyd, ma non sopportano le mie posizioni politiche, faresti meglio ad andare a fanculo e recarti immediatamente al bar”. Nessuno si è alzato, dunque, lo spettacolo può cominciare.

Il vero bersaglio di Waters è chi detiene il potere. Quello che opprime, manipola, disumanizza. E lo dice senza filtri, senza scorciatoie, con la forza di chi non cerca applausi facili, ma connessioni autentiche. Parla al cuore di chi guarda, di chi ascolta. Le emozioni arrivano come pugni nello stomaco. Ti investono da ogni angolazione, colpiscono tutti i sensi. È uno tsunami che parte dalle prime immagini del film e non ti lascia più andare. Un impatto emotivo che ricorda - e forse supera - quello dell’incipit leggendario dei concerti di “The Wall”, quando i Pink Floyd mettevano in scena una “surrogate band”, una sorta di gruppo-clone mascherato da loro stessi, mentre i veri Waters, Gilmour, Wright e Mason restavano nascosti nell’ombra, a pochi passi di distanza. Nel tour “This Is Not A Drill”, Waters alza ulteriormente l’asticella. Se non avete mai visto questo spettacolo, sappiate che il palco è disposto al centro dell’arena, come una grande croce. Un simbolo, certo, ma anche una scelta scenica che rivoluziona tutto: il pubblico è immerso, circondato (e circonda), parte di un rito collettivo. Non più semplici spettatori, ma testimoni attivi.

“Comfortably Numb” apre il concerto. Una scelta sorprendente - soprattutto per chi è abituato a sentirla in chiusura, come fa Gilmour nei suoi live. Ma qui assume un tono completamente diverso: cupo, minaccioso. I musicisti sono già sul palco, mentre sugli schermi scorrono immagini di desolazione e distruzione. E Roger dov’è? È lì, a pochi metri, ma non dove te lo aspetti. Si trova dietro il pubblico, avvolto nell’oscurità, con il microfono in mano. Ti osserva mentre sei rivolto al palco, ignaro della sua presenza. Poi la sua voce rompe il silenzio: “Hello? Is there anybody in there? Just nod if you can hear me. Is there anyone at home?”. È uno di quei momenti che ti ghiacciano il sangue. Il pubblico si gira, lo cerca, qualcuno lo intravede. È un colpo da maestro, una scena che da sola varrebbe il prezzo del biglietto. E sono trascorsi solo a dieci minuti...

Le lacrime scendono spontanee. Fai appena in tempo ad asciugarle che un fascio di luce comincia a scandagliare la sala. Il rumore crescente di un elicottero invade l’ambiente. Poi lo vedi: Roger è arrivato finalmente sul palco, con il dito puntato verso il pubblico, lo sguardo tagliente, la voce che esplode: “You, yes you, stand still, laddie!”.

È l’inizio vero e proprio dello spettacolo. Una sequenza micidiale da “The Wall”: “The Happiest Days of Our Lives” e “Another Brick in the Wall – Part 2”, seguite, a sorpresa, anche dalla martellante “Part 3”. Roger aveva 79 anni quando questo concerto è stato registrato a Praga. Ma l’energia che sprigiona è devastante. Comunica con il corpo, con lo sguardo, con ogni gesto. Alza i pugni, coinvolge gli spettatori, sorride, indica, si muove con una presenza scenica che pochi altri possono vantare. E non si nasconde: il playback c’è, ma non ha importanza. È lì, in carne e ossa, a offrirsi completamente. “In the flesh”, proprio come il titolo del suo tour con i Pink Floyd del 1977.

La band che lo accompagna è solida, affiatata, sensibile. Suonano con una forza e una precisione che colpiscono e coinvolgono. Riescono a mantenere intatto lo spirito del sound dei Pink Floyd, anche grazie a Jon Carin - che ormai ha interiorizzato l’approccio tastieristico di Richard Wright - e a Dave Kilminster, fedele interprete del chitarrismo di Gilmour. Wright e Gilmour: due nomi che incarnano l’anima stessa del suono Floyd. Con il loro spirito evocato sul palco, Waters può dormire sonni tranquilli. Nel frattempo, lo schermo continua a colpire. Scritte imponenti, simbolismi potenti, una regia che cattura ogni dettaglio e ogni sfumatura emotiva. Nulla è lasciato al caso. Il film ti tiene stretto, come lo spettacolo dal vivo. E tu, seduto (al cinema, come a casa), ti senti davvero lì: nel cuore di quel miracolo.

Se “The Wall” è il progetto più emblematico della carriera floydiana di Waters, “The Power That Be” proviene invece da uno dei suoi album solisti meno celebrati, “Radio KAOS” (1987). Waters impugna una Fender (come già faceva nel 1977, durante il tour di “Animals”) e punta il dito contro i “cazzo di poteri forti”. Sullo schermo scorrono crude animazioni e i nomi di alcune persone uccise dalla polizia durante proteste e manifestazioni. Ad esempio, l’enorme nome di Sophie Scholl occupa l’intero schermo. Sophie fu giustiziata il 22 febbraio 1943 insieme al fratello Hans, dopo essere stati colti dalla Gestapo mentre distribuivano volantini all’università. Subito sotto il suo nome, la descrizione del “reato”:

Luogo: Monaco, Germania.

Crimine: Distribuzione di volantini.

Punizione: Morte.

A fine brano, l’enorme volto di Ronald Reagan che parla dallo schermo introduce una versione lenta e struggente di “The Bravery of Being Out of Range” (da “Amused To Death”, 1992), con Waters al pianoforte. Mentre la band suona, scorrono le immagini di vari presidenti americani degli ultimi decenni, etichettati come “war criminal”: Reagan, i due Bush, Clinton, Obama, Trump, Biden (con l’aggiunta da parte di Waters della scritta che “ha appena cominciato”).

Arriva così l’introduzione a “The Bar part 1”, una nuova composizione scritta ai tempi del Covid, che Roger presenta ancora una volta seduto al pianoforte, e che farà parte del suo prossimo album in studio. È il suo modo di accogliere il pubblico in un luogo familiare, quasi fosse un invito a sedersi in un bar per scambiare due chiacchiere sul mondo, sulla politica, sulla condizione umana. Per Waters, il bar è il simbolo di una comunità autentica, in cui ci si confronta su temi fondamentali come i diritti civili e la democrazia. Nel brano, come nel concerto, spiccano le coriste Shanay Johnson e Amanda Belair.

Dove sono i Pink Floyd? Tranquilli, tornano prepotentemente in scaletta proprio da questo momento, quando la band intona il celebre intro di “Have A Cigar” (da “Wish You Were Here”, 1975). Sugli schermi scorrono immagini d’archivio dei Floyd, mentre Roger suona una Fender nera consunta, che avrebbe fatto gola anche a Gilmour. “Which one’s Pink?”, si chiedeva Waters nel testo. Avete trovato la risposta? Il brano si interrompe su un fermo immagine di Roger ai tempi in cui suonava con i Pink Floyd, nel gennaio del 1967. Tutto cambia, nulla cambia.

A proposito, se cercate nei video d'archivio proiettati sullo schermo una immagine di Gilmour fermatevi, non la troverete mai...

Il gioco della memoria prosegue con alcune frasi proiettate. È sempre Roger che parla (anzi scrive), rievocando la sua infanzia con Syd a Cambridge. Guardatelo. È un momento del film (e del concerto) che ogni volta mi strappa le lacrime: “Wish You Were Here”. Se serviva sottolinearlo, la dedica è tutta per Syd Barrett. La voce di Roger è meno sicura, bassa, tremante, ma colma di una sincerità che disarma. Il coinvolgimento del pubblico è totale: lo percepisci negli sguardi, negli occhi chiusi, bagnati d’amore per Syd - e per tutti i Syd che abbiamo perso nel corso della vita.

Quando sullo schermo compare la parola “People” (se hai visto il concerto sai di cosa parlo, se non lo sai, vai al cinema o compra il film ufficiale), sono devastato. Piango ancora adesso mentre scrivo.

Queste due canzoni non sono state accostate per caso. Per arrivare al successo, i Pink Floyd sacrificarono una parte della loro anima, e nel contratto scrissero - col sangue - anche l’addio a Syd. Non se lo perdoneranno mai. Non glielo perdoneremo mai.

Waters racconta poi un crollo nervoso vissuto personalmente nel 1975 agli Abbey Road Studios, un momento durissimo e sincero, mentre parte “Shine On You Crazy Diamond (parts 5-6-7)”. Jon Carin si lancia sulla steel guitar per evocare il tocco di Gilmour, e sullo schermo appare una foto del quartetto originale del 1967, prima dell’arrivo di Gilmour, in un’epoca di spensieratezza e nel periodo di massimo splendore di Syd. Questo omaggio a “Wish You Were Here”, forse l’album più importante dei Pink Floyd (anche più di “The Dark Side of the Moon”), arriva a pochi mesi dal cinquantenario (settembre 1975 – settembre 2025). Sul palco, per suggellare l’evento, il sassofonista Seamus Blake riproduce il suono malinconico di Dick Parry.

Brividi infiniti

“Animals” irrompe in scena con forza subito dopo. La O2 Arena si trasforma in una giungla visiva: uccelli, cani, maiali, pecore e bestioline varie invadono gli schermi, mentre una gigantesca pecora fluttua sull’arena ma anche sullo schermo. È un altro vertice del concerto: l’energia e la potenza di “Sheep” (1977) non hanno rivali. Waters, coerente con la sua narrazione musicale e visiva, imita il belato, si muove sul palco e fissa il pubblico, come un pastore che richiama il proprio gregge. “Animals” è un omaggio a George Orwell e alla sua visione distopica”, scrive Roger sullo schermo. Bingo! L’umanità, secondo Waters, è dominata da poteri oppressivi. Questo concetto viene reso tangibile grazie alle immagini proiettate e alla presenza scenica della grande pecora che si libra sopra le teste del pubblico. Waters la segue con lo sguardo severo, dirigendola con le braccia in uno dei momenti più incisivi del concerto. Sul grande schermo compare una parola divenuta emblematica degli ultimi tour di Roger: “Resist”. È un’esortazione, un appello accorato a non arrendersi.

È passata poco più di un’ora dall’inizio del film, e la nostra resistenza emotiva è già stata messa a durissima prova da un impatto sensoriale incessante. Eppure, il meglio deve ancora arrivare. Mi appunto una qualità sonora pazzesca, che con l'atmos del cinema risulta impareggiabile.

La seconda parte

Dopo un breve intervallo (ci vengono risparmiati i venti minuti della versione cinematografica del 2023) il palco si trasforma: lo schermo si ricopre di lunghi stendardi neri decorati con il simbolo dei martelli incrociati, che compaiono anche fisicamente attorno alla struttura. È “In The Flesh”, brano di apertura di “The Wall”. Waters riappare in scena con una camicia nera e un lungo cappotto in pelle scura, accompagnato da due finti bodyguard. Mentre il celebre maiale rosa - coperto di slogan e simboli - vola leggero intorno al palco, Roger imbraccia un mitra (ovviamente finto) e conclude la sua provocatoria trasformazione filo-nazista simulando una sparatoria verso il pubblico. Il messaggio è chiaramente quello di una parodia dissacrante. Segue “Run Like Hell” (sempre dal “muro”), che dovrebbe chiarire definitivamente il senso del racconto. Roger si spoglia dell’uniforme e torna alla sua consueta t-shirt nera.

Prima di proseguire, legge un testo scritto su un foglio su una polemica con il Jerusalem Post, introducendo due brani tratti dal disco “Is This the Life We Really Want?”.

Il primo è una versione rivisitata di “Déjà Vu”. Waters imbraccia una chitarra acustica e indossa la kefiah, sottolineando ancora una volta il suo messaggio politico e umanitario. Segue l’intensa “Is This the Life We Really Want?”, con Roger al pianoforte. Non si concentra sull’esecuzione tecnica ma sull’interpretazione, muovendo le mani e lasciando che la voce trasmetta tutto il suo sentire. Questa sezione del concerto è forse la più cupa e l'atmosfera viene stemperata da “Money”, uno dei classici più riconoscibili del repertorio floydiano. Mentre il palco si illumina con fasci di luce verde-dollaro, spicca l’ottima performance del sax e il doppio assolo all’unisono di Dave Kilminster e Jonathan Wilson. Inizia così il segmento “The Dark Side of the Moon” (1973), che propone integralmente il lato B dell’album - per chi ricorda ancora la suddivisione del vinile. “Us and Them”, cantata da Wilson, è struggente. “Any Colour You Like” dà spazio a Carin, che rievoca con convinzione le tessiture tastieristiche di Richard Wright, per poi lasciare spazio al duello chitarristico tra Kilminster e Wilson. Il culmine emotivo arriva con “Brain Damage” e “Eclipse”. Visivamente travolgenti, non voglio rivelare i dettagli degli effetti perché vanno visti, vissuti. È uno di quei momenti in cui lo stupore ti avvolge all’improvviso, lasciandoti senza parole.

Il finale

Se le immagini di guerra, violenza e conflitti non vi hanno già devastato a sufficienza, arrivano i bis del concerto. E si parte con uno dei brani più intensi e controversi della discografia floydiana: “Two Suns in the Sunset”, dall’album “The Final Cut” (1983). È raro ascoltare dal vivo un pezzo tratto da quell’album, e per chi l’ha amato, questa scelta rappresenta un dono prezioso e Waters lo offre con una sincerità disarmante. La canzone racconta gli ultimi istanti dell’umanità dopo una catastrofe nucleare, raffigurando l’orrida visione di un cielo dominato da due elementi apparentemente simili: il sole e la palla di fuoco dell’esplosione. Il concerto si chiude con un ritorno emotivo a “The Bar part 2”, continua di quanto eseguito nella prima parte. Roger si siede di nuovo al pianoforte, con l’intera band raccolta attorno a lui. Intona la seconda parte del brano, che funge da preludio perfetto per l’ultima canzone: “Outside the Wall”, il commiato dell’album “The Wall”.

È un momento straordinario. La scena richiama in modo toccante la chiusura dei concerti floydiani del 1980-81. Roger presenta uno a uno i nove musicisti che l’hanno accompagnato, mentre scendono dagli scalini e salutano. Sullo schermo, le loro immagini vengono proiettate insieme ai nomi e agli strumenti suonati durante quella serata memorabile. Poi tocca a Roger. È l’ultimo a lasciare il palco. Si unisce alla band nel backstage, ripreso da una telecamera che trasmette le immagini in diretta sullo schermo. “Outside the Wall” si conclude lì, lontano dallo sguardo diretto del pubblico, ma non dalle emozioni. Waters muove le braccia, con un gesto lento e definitivo, chiudendo idealmente la serata. In quell’esatto istante, la telecamera si spegne sull’ultima immagine della band.

Un finale delicato ma potentissimo. Sobrio e solenne. Una conclusione degna non solo di un concerto, ma forse di un’intera carriera. Perché se davvero “This Is Not A Drill” dovesse essere l’ultima volta di Roger Waters su un palco, allora questo è l’addio che merita.

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