E se St. Vincent non avesse ancora lo spazio che merita?

Quando la si vede dal vivo può venire naturale chiedersi: stiamo davvero dando a St. Vincent quel che è di St. Vincent? Non fa eccezione il maiuscolo show a La Prima Estate, dove in qualità di co-headliner Annie Clarke porta il suo mondo art rock a lasciare un segno indelebile nell’ancora giovane storia del festival. Questo pensiero può arrivare anche a prescindere dal grado di familiarità con la sua musica, i suoi live e la sua carriera ricca di riconoscimenti. La sensazione è simile a quella che si prova quando un astro nascente sportivo, che ha già vinto tanto e ha magari bruciato qualche record, viene comunque trattato con leggero scetticismo e lo si colloca nel quadro generale con cautela, mentre lo si aspetta al varco, con il dubbio - che per gli entusiasti è speranza, per i gatekeepers è timore - che il suo momento debba ancora arrivare.
Nonostante Annie Clarke abbia un curriculum invidiabile, dagli esordi con i The Polyphonic Spree all’avventura con Sufjan Stevens, fino al progetto “St. Vincent” che l’ha portata a fare incetta di premi internazionali e collaborare con mostri sacri come David Byrne, Dave Grohl e The Chemical Brothers, aleggia sempre il dubbio che il meglio debba ancora venire. Che in fondo questo misto di talento e follia meriti un posto d’onore ben più prestigioso. Persino adesso, che con il nuovo album “All Born Screaming”, il primo interamente auto-prodotto, si parla di ennesima ridefinizione artistica e alla 67esima edizione dei Grammy Awards dello scorso febbraio ha trionfato con tre premi - Best Alternative Music Album, Best Rock Song (“Broken Man”) e Best Alternative Music Performance (“Flea”). La verità è che pochi artisti al mondo sono così liberi senza risultare mai respingenti. St. Vincent è infatti un progetto rivolto a chiunque apprezzi il rock, purché lo faccia senza pregiudizi o limiti di sorta. Musica, estetica e attitudine vanno di pari passo con una visione strettamente ancorata all’indipendenza, all’approccio “DIY til I die” radicato nel suo background indie-rock. La sua volontà di fondere musica e arti figurative inoltre si concretizza nella forte estetica, grazie anche allo zampino dell’artista concettuale americano Alex Da Corte che ha agevolato l’avvicinamento al simbolismo visivo di Goya e Bosch.

Come accade per gli artisti più originali e culturalmente rilevanti, occorre poi sempre completare il quadro con la prova dal vivo. Ed è qui che St. Vincent esplode in tutta la sua sfacciata magnificenza, mai uguale a se stessa, mai definitiva. Sul palco Annie sputa, si butta a terra, spinge i membri della band e poi li riverisce con affetto. Canta soavemente e poi si lancia in uno screaming rabbioso. Unisce con un appel sbalorditivo la parte più brutale e misteriosa della sua musica, con quella più romantica ed emotiva. È quello che lei stessa definisce “un’esplosione di emozioni tra agonia ed euforia” che si svela davanti ai suoi spettatori, che non possono fare a meno di sorriderle, di seguirla con gli occhi spalancati per non perdersi neanche un cenno, un’espressione, un guizzo gotico e folle da portarsi a casa come cartolina glamour della serata.
Non che la band sia meno degna di attenzioni, sia chiaro. In particolare Jason Falkner, chitarrista di St. Vincent dal 2021 (peraltro, l’anno della completa rifondazione della band), è un portento con il quale la cantautrice di Tulsa si diverte a giocare sul palco. Si stuzzicano, si incontrano e si scontrano in uno scambio che arricchisce tantissimo la performance. E nel frattempo il buon Jason mostra il suo immenso talento, sia come musicista che come intrattenitore, mentre Il resto della band completa il quadro virtuoso. Ecco come ogni brano è arricchito dal vivo: dalla sensibilità gotica e disturbante dei pezzi tratti “Strange Mercy” da “Masseduction”, al rock primitivo dei nuovi brani, tra i quali spiccano senza dubbio “Flea” e “Broken Man”, punte di diamante del concerto.
E dunque, più dei Grammy e delle ottime recensioni, cosa merita davvero St. Vincent? Difficile dirlo, com’è difficile definire la sua musica e la sua visione senza rischiare di limitarne lo spettro e quindi farle un torto. È il trionfo della dissonanza, dell’imprevedibilità, dell’allucinazione. Ogni volta che il pubblico o la critica credono di averla finalmente inquadrata, lei cambia pelle. Forse per questo il suo percorso segue la natura asintotica di un “orizzonte mobile”: il meritato posto nella storia della musica alternativa si avvicina sempre, ma – proprio come un orizzonte che si sposta man mano che ci si avvicina – non viene mai davvero raggiunto. Meno male, perché così probabilmente anche noi continueremo a indagarla e inseguirla, senza fermarci mai.