Rkomi: “Ho fatto il bungee jumping negli abissi”

Rkomi, in “decrescendo.”, il suo nuovo disco, è trasparente. Si può vedere tutto. Racconta la sua vita, la sua famiglia, le amicizie, gli amori, le luci e le ombre di un percorso partito in salita e che non ha mai smesso di metterlo alla prova. Arriva da un Festival di Sanremo dove più che giudicato per “Il ritmo delle cose”, è stato, in modo gretto, preso di mira per il suo modo di parlare. Ma questo non gli ha impedito di chiudere un disco estremamente personale e vero, che mette “un punto a capo”, come quello alla fine del titolo di ogni canzone. Un album che mostra, ancora una volta, la forza della sua penna e restituisce un artista che chiede di essere ascoltato, con attenzione, e che per tornare in alto, come per l'effetto molla del bungee jumping, si è tuffato negli abissi.
Il filo rosso tra tutte le canzoni è rappresentato dai legami?
Come ha detto un mio caro amico, ogni canzone può essere vista come una lettera a qualcuno. Io non ho mai lasciato in disparte, nella mia vita personale, i legami. Ma forse nella musica sì, l’ho fatto. Ne parlavo meno. Aggiungi, aggiungi, aggiungi, poi a un certo punto devi tornare a quello che davvero conta, devi togliere….
Il titolo evoca un "tornare indietro".
Volevo tornare a uno stato, soprattutto mentale, che avevo all’inizio nel fare musica. In un’intervista Pupi Avati parla di “risarcimento dalla vita”. Dopo molte privazioni, a un certo punto ho capito che mi sarei dovuto guadagnare tutto: dal bacetto con la prima ragazza, sudatissimo, perché non ero certo il bello della scuola, fino al lavoro, quello che conosciamo tutti, e alla musica. Ho dovuto prendermi con la forza determinate cose. Poi ho dovuto crescere verso il basso, fare un lavoro su di me particolare. Da qui il titolo. Sì, c’è un “tornare indietro”, ma che è anche una critica alla società di oggi.
Dove in particolare?
Nella copertina senz’altro. È una mia foto di classe. C’è il momento dello scatto, è ovvio, ma non si può non pensare anche all’attimo dopo, a quello del “ora torniamo tutti alle nostre vite”. Anche tristi. Quando le luci e i flash si spengono c’è dell’altro.
Quando si torna alle radici, solitamente, è perché si è persa la strada. Ti è capitato questo?
Mai. “Taxi driver” è stato un disco più giocoso, leggero, aperto. Anche se non sembra è stato più un flusso di coscienza quell’album lì rispetto a “decrescendo.” in cui ho pensato a lungo a che cosa dire e a come dirlo. In “Taxi driver” mi sono proprio lasciato andare. In “decrescendo.” ho ragionato di più, questo perché ci tengo tantissimo, è il disco dei trent’anni. Mi sono preso sul serio, poi mi sono alleggerito, poi è arrivata l’apatia: in “decrescendo.” ho vissuto tante fasi, ma non ho mai perso la bussola.
Ci sono pezzi come “L’ultima infedeltà” e “Così piccoli” in cui scavi, parli di questioni e vicende familiari anche sofferte. Come si arriva, con consapevolezza, a decidere di parlare di temi così delicati?
Se non ci fosse stato un sacco di bello nella mia vita, non sarei riuscito a tirare fuori tutta questa merda. Se non avessi avuto pieno potere su di me, non sarei riuscito a scrivere brani così. Non sarei riuscito a criticarmi. Sono stato arrabbiato con me per non essermi capito, in amore per esempio. Non ho voluto più prendermi in giro e in questo disco ho detto esattamente le cose come sono.
Cos’altro ti ha deluso?
Il mondo della musica, in generale. C’è un mercato patinato…io facendo questo disco mi sono detto “voglio differenziarmi”. E per farlo dovevo puntare il dito su di me, non sugli altri. Alcune volte vedo rapper e non, fare grandi sproloqui, parlando più di quello che non fanno bene gli altri che di sé. Io ho fatto un altro tipo di lavoro.
È un disco pieno di elettronica. Come hai lavorato sul suono?
C’è più elettronica possibile, consapevole del tipo di disco che stavo facendo. Volevo un sound davvero mio che non strizzasse l’occhio agli standard. Mi sono reso conto che i testi erano molto seri, a livello sonoro non puoi non tenerne conto, non puoi fare follie. Con “Taxi driver” non guardavo gli abissi, ora voglio vedere soltanto gli abissi. L’elettronica è il punto focale, ci sono pochissime chitarre proprio per fare l’opposto di “Taxi driver”.
Stelle polari?
All’inizio Damon Albarn e Thom Yorke, poi N.E.R.D., ma alla fine ho fatto i conti con chi sono io, sul come canto e su quello che volevo esprimere. E no, Thom Yorke, non ho potuto farlo (sorride, ndr).
Hai lavorato per sottrazione sulla musica?
Sì, perché avevo tante cose da dire. Ho tenuto il mio parlato-rappato, per farlo emergere era necessario un sound un po' più minimale.
Canti: “Fare musica è come una pentola a pressione”. A cosa ti riferisci?
Intanto questo è un lavoro in cui alla fine non ci si capisce un cazzo. E più credi di capirne, più a un certo punto ti rendi conto che non è così. È stato interessante per me pensare meno e lasciarmi prendere dalle cose. “Fare musica è come una pentola a pressione”, con i manici che scottano, come dico, è una metafora per dire: cerchiamo di analizzare un po’ meno le cose e di godercele di più. Fallimenti, vittorie, tutto deve essere motivato. Ripeto: godiamoci di più la musica.
Al Festival di Sanremo hai presentato “Il ritmo delle cose”. Più che sulla tua canzone si è discusso sul tuo modo di cantare, sul tuo linguaggio, sul “corsivo”, arrivando a toccare anche punti bassissimi che non hanno nulla a che fare con la critica. Ne sei rimasto condizionato negativamente?
Mi ha scosso. Non in positivo, neanche in negativo. Poi mi ha immobilizzato. Capisco la bassezza di certi individui, ma la verità è che io volevo permettere a quel brano di essere cantato per altri cinque anni nei miei concerti. Volevo che arrivasse alla gente, più gente possibile e che diventasse un primo tassello coerente…perfettamente inserito in questo album. Ero consapevole che stavo andando a Sanremo, ma non volevo fare Sanremo, volevo fare me. Tanti vanno a fare il Festival, poi il pezzo presentato finisce in un disco che non c’entra un cazzo o tutto il disco è brutto.
Pezzi come “Il ritmo delle cose” e “10 secondi” ci ricordano l’importanza di respirare e di non finire dentro gli ingranaggi?
Sì, io l’ho sempre saputo fare. Sono un animale da festa, ma so anche stare solo, dentro la solitudine. Per me ci devono essere ambedue i lati. Io non ho mai avuto la sensazione di non ascoltarmi. Io parlo soprattutto della fretta di avere, di fare, di scegliere, di possedere. Nayt in “10 secondi” è entrato perfettamente in questo discorso, a suo modo. Volevo dire un’altra cosa su Sanremo….
Prego.
In “odio, quindi sono.” ho raccontato questa società post significato, una società in cui le persone che si espongono vengono prese in giro. Ed è successo anche a me, sono stato preso in giro per bene. Sai cosa mi è dispiaciuto? Che alla fine di tutto sia stata la canzone a risentirne, le sensazioni del brano. Io ho provato a dire delle cose, anche profonde….
Quando succedono queste cose vince il chiacchiericcio sulla canzone. Ti ricordi quando Levante venne attaccata perché si presentò al Festival bionda? Il suo bel pezzo “Vivo” passò in secondo piano.
Certo. Vieni etichettato e lì per lì non se ne esce.
In questo viaggio hai voluto Tedua, Izi, Ernia, Lazza, e Nayt, con cui hai condiviso tanto.
Negli anni ci siamo visti di meno. Lavorare su questi pezzi, fare le sessioni, ci ha permesso di vederci di più, di prometterci anche di continuare a farlo. Come facevamo da piccolini ci siamo visti un botto di video su YouTube. Sono stati fantastici, si sono messi in gioco, tutti avevano voglia di scrivere, di lasciare il segno.
Questo disco guarda indietro, ma davanti che cosa c’è?
Questo disco non è finito. Non parlo di repack o altro. Parlo proprio di far proseguire il racconto. Certamente metto un punto. Per questo c’è il punto anche dopo il titolo “decrescendo.”. Questo disco è un salto in basso, è un bungee jumping, mi sto tuffando e poi, con l’effetto molla, risalgo. Sono attivo, ho ancora tanta voglia di raccontarmi.