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Giulia Mei: “Ho trasformato il dolore in qualche cos’altro”

La cantautrice pubblica l’album “Io della musica non ci ho capito niente”. L'intervista.
Giulia Mei: “Ho trasformato il dolore in qualche cos’altro”
Credits: Agnese Carbone

“Io della musica non ci ho capito niente” è il secondo lavoro in studio della cantautrice Giulia Mei, in uscita il 28 marzo. Prodotto insieme a Ramiro Levy e Alessandro Di Sciullo ospita interventi di Rodrigo D’Erasmo, Anna Castiglia e Mille. “Volevo solo fare un disco pieno di vita ordinaria, il diario di una bambina che parla di tutto senza preoccuparsi della forma, senza sovrastrutture, volevo colorare fuori dai bordi, giocare. Questo progetto per me è una dichiarazione d'amore al disordine che non mi sono mai concessa per paura”, ha raccontato l’artista palermitana. Nel disco c’è anche “Bandiera”, un pezzo diventato un inno femminista (qui la storia del brano e dell'artista). "Io della musica non ci ho capito niente” è un album verace, ricco musicalmente, che nel suo essere cristallino è già di per sé un dito medio all’appiattimento dell’algoritmo. Mei la presenterà dal vivo in tour, il palco è il suo territorio naturale.

Il titolo è un grido liberatorio?
Effettivamente lo è. È una provocazione intrisa di ironia. È uno spezzare le catene. Ho passato tutta la vita a studiare musica, ho fatto il Conservatorio e mi sono resa conto che tutti gli insegnamenti ricevuti, a un certo punto, è come se mi avessero bloccata, mi avessero spinto a seguire una forma, a emulare qualche cosa di già esistente. Mi hanno allontanata da quello che volevo dire ed essere veramente.

Hai portato avanti un processo di destrutturazione?
Sì, con questo disco volevo tornare a una creatività più leggera e giocosa. Che è un po’ quella dei bambini, che mescolano diversi elementi. L’ho fatto anche io: ho realizzato un album in cui convivono l’elettronica, di cui mi sono innamorata da qualche anno, la musica classica e il cantautorato. Ho mischiato tutto seguendo una nuova idea di libertà. Io credo che per trovare una nuova forma si debba abbandonare la precedente.

Hai fatto pace con gli anni del Conservatorio? Nel disco ne parli tra luci e ombre.
Senz’altro. La musica classica apre la mente. Quel rigore mi è servito, ma non nego che sono stati anche anni molto stressanti. Mi sentivo inadeguata, studiavo anche dieci ore al giorno, piangevo. Quando poi ho ascoltato De André, grazie alla maestra Angela, mi sono innamorata di una certa forma canzone. Ho mollato la musica classica per seguire qualche cos’altro, ma con il tempo mi sono riappacificata con quel mondo e questo disco lo dimostra.

Nell’album parli anche di questioni molto personali e familiari. È stato doloroso mettere questi argomenti in musica?
Ho cercato di trasformare quel dolore in qualcosa di diverso. È quello che spesso fanno le cantautrici e i cantautori. Questo è un disco necessario per me. Non l’ho fatto pensando “funzionerà o no”, l’ho fatto per me e con la speranza che quello che racconto possa essere utile anche ad altri. Che qualcuno possa rivedersi nei miei pezzi.

Il pubblico, ripensando al podio, ha premiato la verità all'ultimo Festivald di Sanremo?
Sanremo è lo spaccato di un sentire comuneLe persone hanno voglia di verità, di musica vera e di argomenti. Io questo l’ho visto anche con “Bandiera”, non mi aspettavo un ritorno del genere su un tema così importante. Chi ascolta musica, secondo me, si è stancato dei pezzi preconfezionati. Questo può essere un buon momento storico per chi fa canzoni con verità e identità.

Nel disco ci sono tre ospiti Anna Castiglia, Mille e Rodrigo D’Erasmo.
Non li chiamo feat, per me questa è pura condivisione. Anna ed Elisa sono due grandi artiste e amiche. Rodrigo lo stimo tantissimo. È tutto mosso da sincerità e voglia di scrivere e lavorare insieme.

“Mio padre che non esiste” è uno dei pezzi più emotivi e potenti. Hai voglia di parlarne?
È stato il pezzo più difficile da realizzare. Ho preso il dolore, l’ho messo in un posto e ora lo posso osservare. Sentivo tanti sensi di colpa prima di scrivere questo pezzo. È nato da ricordi di mio padre prima della malattia che ha avuto, ricordi in cui era esattamente come lo voglio ricordare. Il tema della depressione è molto delicato, io ho voluto raccontare l’amarezza di non poter più avere a che fare con quel lato di mio padre prima della malattia, ma dall’altro ho anche voluto lasciarlo per sempre lì, cristallizzato, dentro una teca. Lui per me è così ed esiste ancora così, la malattia non lo ha intaccato.

L’arte può e deve parlare di tutto?
Per me sì. La paura di non trattare certe questioni rischia che temi importanti non abbiano un vero megafono. E invece i megafoni sono utili: “Bandiera” ne è stato un esempio, per molte è stata una canzone liberatoria.

“Â picciridda mia” è un tributo alle tue radici palermitane?
Tutte e tutti abbiamo una picciridda dentro o fuori di noi da cullare e consolare, tutti qualche volta abbiamo bisogno di sentirci dire che non è colpa nostra e che il mondo non ci merita, tutti almeno una volta nella vita ci troviamo a desiderare l’amore semplice. Ma raccontato in palermitano, ovviamente, tutto ciò ha una forza diversa, ulteriore. 

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