La Gen Z ascolta i Blur perché non è cambiato niente
Dopo alcuni documentari di stampo classico sulla storia musicale della band e un film live sullo storico concerto a Wembley, “Blur: To the End” racconta la band icona del Brit Pop anni ‘90 per com’è oggi: invecchiata, meno connessa di un tempo, ma ancora in grado di lavorare e suonare sulla stessa lunghezza d’onda. L’occasione l’ha data la reunion del 2023, quando i Blur fecero un ritorno a sorpresa con tanto di album d’inediti, il primo dato alle stampe dopo un silenzio di 8 anni.
“In quegli anni ricevevo più telefonate da Downing Street o da Palazzo che dagli altri membri della band” ironizza a inizio documentario il chitarrista Graham Coxon, rispolverando quel pungente humour che emerge in tutta la musica dei Blur, l’approccio molto british con cui i membri della band nel doc si riavvicinano, come a riprendersi le misure uno sull’altro, studiarsi. Fino a momenti d’intensa onestà reciproca, di emotività non filtrata, come quando Damon Albarn sente per la prima volta la registrazione provvisoria di “The Ballad of Darren” e piange. E Graham fraintende e pensa stia ridacchiando.
Come si entra in connessione con una band di professionisti a questo livello, soprattutto quando si è stati fan sin da ragazzi della stessa? Come si supera quell’impasse di dover essere naturali di fronte alle cineprese sempre presenti nella stanza, fino a regalare momenti così non filtrati, potenti?
Ne ho parlato con il documentarista Toby L., regista di “Blur: To the End” e veterano del racconto del dietro le quinte dell’industria musicale, abituato anche al racconto di celebrità del settore, anche quelle da carattere non accomodante. Toby ha lavorato con i Blur dopo aver diretto documentari e concerti live dedicati a Rihanna, ai Bastille, a Liam Gallagher.
Come è nato questo progetto?
Mi sono occupato delle riprese del concerto di Wembley dei Blur, che sono poi diventate un live di due ore intitolato “blur: Live at Wembley Stadium”. In tutta onestà, un paio di mesi prima di quel momento siamo stati noi del team registico a mandare una proposta ai nomi coinvolti nella produzione. Per fortuna loro hanno deciso di organizzare un incontro con la band e proporgli l’idea di un docufilm che fosse una sorta di racconto del ritorno sulle scene e del loro grande trionfo a Wembley. Per fortuna siamo riusciti a convincerli in 45 minuti che quello era davvero un buon momento per fare un altro documentario sui Blur.
Come li hai convinti?
Gli ho spiegato che stavolta ci saremmo concentrati sul momento della loro vita che stanno vivendo, parlando più della loro evoluzione di persone ormai adulte, di cosa fanno, della vita che conducono più che del semplice ricordo nostalgico degli anni ’90. Volevo che si parlasse con molta onestà e realismo del loro rapporto tra membri della band che ora conducono vite separate.
Per quanto tempo li hai seguiti?
Per sei mesi, non in maniera continuativa ma alternando momenti di riprese a pause. Non volevo che fosse un documentario statico girato tutto in studio, volevamo fosse molto on the road, per cui li raggiungevamo non appena si muovevano per una tappa del tour o per fare qualcosa assieme. Ho pensato che sarebbe stato più autentico così.
Una volta raccolto il materiale, quanto ti ci è voluto per montare il film e da cosa ti sei fatto guidare per scegliere cosa includere e cosa no?
Il mostro finale di ogni documentarista è il montaggio. Arrivi in studio, sai di avere dell’ottimo materiale e poi ti ritrovi davanti questa montagna di girato e pensi “Oh mio Dio, e ora come faccio?”. Io spesso dico che è come combattere con 15 squali contemporaneamente. Per questo film la battaglia è durata 9 mesi. È come un puzzle davvero complicato, alle volte di senti perso, confuso, ci perdi la testa. Alla fine è però tutta questa fatica ti ripaga.
Quello che rende difficile il processo di montaggio è quando ti trovi davanti un momento davvero divertente o uno molto commovente, che però non rientra nella narrazione che hai stabilito, nelle regole che ti sei dato. Sei consapevole che devi liberartene, ma ti piange il cuore. Conta che avevamo qualcosa come 350 ore di girato e ci sono stati parecchi momenti così.
350 ore?
Sì, centinaia e centinaia di girato con la band nei loro momenti di normalità. Alcuni momenti sono rimasti giocoforza fuori, ma sono davvero contento del risultato. Quello che vedrete è il film sulla band che volevo fare, quello che volevo che il loro pubblico vedesse. Che alle persone piaccia o meno, vaffanculo, non mi interessa. Questo è quello che volevo raccontare io dei Blur, di chi siano oggi.
Non è un mistero che tu sia un grande fan della band, sin da ragazzo. Rispetto a quando hai lavorato con i Bastille o con Rihanna, questa vicinanza emotiva al soggetto come ha cambiato il tuo lavoro?
Da documentarista quando spendi tanto tempo con le persone, alla fine trovi sempre un terreno comune d’incontro, una connessione. Quando segui per settimane un musicista finisci per innamorarti del suo lavoro, della sua musica, anche se non sei così interessato all’inizio. Però hai ragione, io ho una connessione duratura e speciale con la musica dei Blur. Personalmente tendo ad andare in direzione opposta, a cerca di tenermi più distaccato possibile, a essere duro sulle mie posizioni, ripetendomi: “sei un fan, devi essere irreprensibile e freddo”.
Allo stesso tempo hai una grandissima conoscenza della loro opera, della loro arte, una che non puoi mettere insieme leggendo qualche libro e intervista un paio di settimane prima, no? Quindi c’è quel momento speciale sul set in cui uno dei Blur chiedeva a un altro “come si chiamava quella canzone che abbiamo fatto nel tal anno?” e io potevo rispondere “S’intitolava così”. È successo un paio di volte e credo abbia molto aiutato a creare una connessione, un senso di fiducia. Sentono che non sei lì solo per lavoro, che t’interessa davvero di quello che fanno, no?
I Blur dicono un po’ le stesse cose che sento dire a Celine Dion e ai Beach Boys in progetti simili. Il modo in cui parlano della morte, dell’invecchiare, in un certo senso del diventare le persone che non volevano essere, con la casa in campagna e le galline… eppure sono molto più giovani...
Era una tematica a cui io tenevo molto, che volevo che uscisse fuori. Io li frequento da prima di lavorare a questo progetto, per cui so per esperienza che sono persone davvero dirette, oneste. Damon in particolare è molto onesto e diretto nelle interviste e con i giornalisti, tanto che ad alcuni ispira quasi timore, paura. Io invece penso che sia fantastico: non voglio che i soggetti del mio lavoro mi dicano cazzate e i Blur non lo fanno.
Anche se ognuno lo fa a modo suo.
Decisamente, ogni membro della band ha un modo tutto suo di comunicare con gli altri e con la cinepresa. Sono persone molto intelligenti, che fanno ragionamenti molto articolati. Per questo sapevo di dover, di poter puntare su questo racconto di quello che stanno provando di fronte all’invecchiare sia dal punto di vista artistico e mentale sia meramente da quello fisico, nel loro corpo di performer. Per mia fortuna, erano molto aperti sull’argomento.
Come mai hai voluto includere quella clip delle fan giovani del Blur, che ancora non c’erano negli anni ’90, che ne descrivono la musica?
Non era tra i miei scopi quello di dirigere un film nostalgico, non lo trovavo interessante, anche se quella componente a un certo punto diventa innegabile, no? Mentre eravamo lì nel backstage di questi concerti non potevo non notare come buona parte del pubblico aveva la metà dei miei anni. Ho cominciato a parlarci perché volevo capire per loro cos’era interessante, cosa li aveva attratti della musica dei Blur. Ho voluto includere quella scena nel documentario finale perché le risposte che mi hanno dato sono le stesse che davamo noi a metà anni ’90. Volevo mostrare come i messaggi, le connessioni della musica dei Blur stanno passando di generazione in generazione perché sono ancora rilevanti nel clima politico e sociale attuale. È una realizzazione deprimente, in un certo senso.
Fammi un esempio concreto.
È veramente deprimente per esempio vedere come a 30 anni di distanza “rubbish” - questo termine molto inglese e molto negativo - venga ancora considerato perfetto per esprimere il presente dai nuovi fan dei Blur. Una band che ha scritto l’album “Modern Life Is Rubbish” nel 1993. La corruzione e l’avidità politica che impattano la vita delle persone comuni venivano denunciate allora e i giovani di oggi ancora sentono una connessione, una rilevanza con quella critica sociale, purtroppo attualissima.
“Blur: To the End” è nelle sale italiane, distribuito da Adler, fino al 26 febbraio 2025.