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Dagli Abba ad Avicii: perché la Svezia esporta così tanto pop

Parlano svedese anche le hit di Taylor Swift e The Weeknd (oltre a Spotify): i segreti di un caso.
Dagli Abba ad Avicii: perché la Svezia esporta così tanto pop

C’è qualcosa che accomuna le più grandi canzoni pop degli ultimi cinquant’anni: è una nazione. E no, non stiamo parlando degli Stati Uniti. E neppure del Regno Unito. La nazione in questione ha un trentaduesimo degli abitanti degli Stati Uniti e un settimo degli abitanti del Regno Unito, eppure è il terzo paese al mondo per esportazione di successi. Dagli ABBA ad Avicii, passando per i Roxette, gli Ace of Base, Max Martin, Shellback, Robyn, Tove Lo, Lykke Li e Loreen: una grandissima parte del pop che da cinquant’anni scala le classifiche mondiali parla svedese. Anzi, per essere più precisi: parla inglese, ma suona svedese. Hanno sangue svedese non solo, com’è naturale che sia, le hit che hanno permesso agli ABBA di vendere oltre 380 milioni di copie a livello mondiale, ma anche quelle - più recenti - di Taylor Swift, di The Weeknd e pure dei “nostri” Maneskin. Non solo: in Svezia è nata la piattaforma che ha rivoluzionato il modo di ascoltare musica, Spotify. Swedish do it better? Sì, gli svedesi lo fanno meglio (il pop). E il tema è da tempo un caso di studi sul quale si sono interrogati teorici del pop, esperti di comunicazione e musicologi, tutti alla ricerca della risposta a una domanda semplice, ma al tempo stesso enigmatica: perché la Svezia esporta così tanto pop?

Dagli ABBA a Loreen

Era il 1974 quando un quartetto allora sconosciuto al pubblico internazionale si presentò in gara all’Eurovision Song Contest. Gli ABBA, chiamati così per via delle iniziali dei nomi dei quattro componenti, Agnetha Fältskog, Björn Ulvaeus, Benny Andersson, Anni-Frid Lyngstad, erano nati due anni prima a Stoccolma. Mentre i concorrenti degli altri paesi in gara si esibirono sul palco della kermesse ciascuno nella propria lingua d’origine, gli ABBA ebbero l’intuizione di cantare in inglese, cercando di farsi capire da quanta più gente possibile. La loro canzone si intitolava “Waterloo”. Era una hit nata, con un ritornello che dire orecchiabile è dire poco: «Waterloo / I was defeated, you won the war / Waterloo / promise to love you forevermore», cantavano Agnetha e Anni-Frid, sfoggiando i loro costumi sgargianti. Fu l’inizio di un successo straordinario, la cui eco ancora oggi risuona in tutto il mondo. Quarantanove anni dopo, nel 2023, un’artista svedese è tornata a trionfare sul palco dell’Eurovision, più che per chiudere un cerchio per continuare ad alimentare il sacro fuoco acceso dal quartetto di “Mamma mia”: Loreen con “Tattoo” due anni fa ha fatto la storia sul palco della kermesse continentale, conquistando la sua seconda vittoria in undici anni, dopo quella del 2012 con “Euphoria”. Nell’interessante serie Netflix “This Is pop”, che affronta diverse tematiche legate alla popular music, c’è un episodio che si intitola “Stockholm Syndrome” ed è una genealogia del fenomeno del pop made in Svezia.

Oltre gli ABBA: il caso dei Roxette e quello degli Ace of Base

È opinione comune che il “Big Bang” del pop svedese, se così vogliamo definirlo, sia stato rappresentato proprio dal planetario successo degli ABBA dopo il trionfo all’Eurovision Song Contest. Il primo a rivendicarlo è proprio Björn Ulvaeus, motore delle hit che hanno permesso al quartetto di scalare le classifiche mondiali: «Quando una persona nata in un piccolo stato come la Svezia ha un simile successo, tutti pensano: “Se ce l’ha fatta lei, posso farcela anche io”». Giusto, giustissimo. Ma non era del tutto scontato che dopo il successo degli ABBA così tanti musicisti svedesi potessero imporsi sulle scene mondiali, scrivendo alcune delle pagine più importanti della musica pop. Per dire: hanno dna svedese - in ordine sparso - “Baby one more time” di Britney Spears, “I want it that way” dei Backstreet Boys, “It’s my life” dei Bon Jovi, “I kissed a girl”, “California gurls”, “Teenage dream” di Katy Perry, “We are never ever getting back together”, “Shake it off”, “Blank space” e “Bad blood” di Taylor Swift. E ancora: “Supermodel” dei Maneskin, “Moves like Jagger” dei Maroon 5, “Kiss you” e “What makes you beautiful” degli One Direction, “Cant’ feel my face” di The Weeknd e “I don’t care” di Ed Sheeran. L’anello di congiunzione tra gli ABBA, la cui parabola si consumò in meno di dieci anni, tra il 1974 e il 1982, è rappresentato dai Roxette. Partiti da Halmstad, città che affaccia sullo stretto di Kattegat, tra la Danimarca e la Svezia, Per Gessle e Marie Fredriksson alimentarono il fuoco acceso da Björn Ulvaeus e compagni, conquistando gli Stati Uniti a cavallo tra la fine degli Anni ’80 e l’inizio degli Anni ’90 con hit come “The look”, “Listen to your heart” e “Joyride”. A confermare una volta per tutte al pubblico angloamericano che oltre ai motivetti degli ABBA c’era molto, molto di più, ci pensarono poi gli Ace of Base: era il 1993 quando la loro “All that she wants” fece ballare le discoteche di mezzo mondo. Dietro quella hit che mischiava dance pop e reggae fusion c’era lo zampino di un produttore destinato ad avere un ruolo centrale nella globalizzazione della musica pop svedese.

L'uomo che portò la musica svedese nel futuro

Denniz Pop, vero nome Dag Kristler Volle, scomparso prematuramente nel 1998, voleva in qualche modo sganciare la musica svedese dall’ingombrante eredità degli ABBA, portandola nel futuro. E ci riuscì, anche grazie alla brillante intuizione di aprire uno studio di registrazione che era molto di più che una semplice sala di incisione. I Cheiron Studios di Stoccolma, fondati nel 1992, erano una sorta di Factory di Andy Warhol applicata però alla musica: Denniz Pop radunò intorno a sé talentuosi musicisti, autori e compositori svedesi. Quando gli Ace of Base diventarono un fenomeno mondiale, di colpo le etichette inglesi e americane si precipitarono a Stoccolma sulle tracce del produttore: tutti volevano firmare con la Cheiron affinché producesse, registrasse e componesse per i loro artisti. I primi ad essere spediti dagli Usa in Svezia? Furono i cinque componenti di una boy band originaria di Orlando, in Florida, che di lì a poco avrebbero spopolato con una hit intitolata “I want it that way”: erano, naturalmente, i Backstreet Boys. La svolta, però, si consumò solo quando tra le pareti dei Cheiron cominciò a prendere forma una canzone che avrebbe rappresentato un punto di non ritorno per la musica pop mondiale degli Anni Duemila: “Baby one more time” di Britney Spears.

L'eredità di Denniz Pop

Denniz Pop, però, non fece in tempo ad assistere al clamoroso successo di quel singolo nato dalle menti di due dei suoi allievi, Max Martin e Rami Yacoub (un altro era Shellback, vero nome Karl Johan Schuster), destinati a comparire nei crediti di tutti i più grandi dischi pop dei successivi vent’anni: il produttore morì dopo una lunga malattia nell’agosto del 1998, due mesi prima del trionfo dell’ex stellina Disney. Negli ultimi quindici anni (almeno), anziché importare star americane, la Svezia sta esportando produttori e hitmaker negli Stati Uniti: fu collezionando esibizioni nei principali festival di musica elettronica d’Europa e degli Stati Uniti che Avicii, 17 miliardi di stream sulle piattaforme con hit come “Wake me up”, “Hey brother” e “Level”, ancora oggi ballate in tutto il mondo, si consacrò come uno dei dj più grandi della sua generazione. Max Martin vive da tempo a Los Angeles. Secondo le stime, grazie ai tantissimi successi firmati negli anni è riuscito a costruirsi un patrimonio netto di 400 milioni di dollari. Per numero di successi da lui firmati e finiti in vetta alle classifiche, è secondo solo a Paul McCartney e John Lennon.

La cultura della musica in Svezia

Certo, gli ABBA, i Roxette, gli Ace of Base, la metodologia di Denniz Pop. Ma per qualcuno c'è di più. Su Reddit sono tanti gli utenti che fanno risalire il successo del pop svedese allla cultura della musica di Stoccolma: «Abbiamo lezioni di musica obbligatorie come parte del curriculum dalla prima alla nona elementare, che penso aiutino a incoraggiare molte persone interessate alla musica. Abbiamo anche le nostre "scuole di cultura" (traduzione diretta) che si concentrano su musica e strumenti, teatro, coro e altre arti, tutto questo è quindi abbastanza accessibile e consente ai bambini e agli adolescenti di sviluppare precocemente il loro interesse per la musica», scrive un utente in un thread. È una chiave di lettura interessante (e incoraggiante). Ma c'è chi fa notare: «La Norvegia ha esattamente la stessa cosa e non è nemmeno lontanamente vicina al successo della Svezia nella musica pop. Lo stesso si può dire della Danimarca». E un altro ancora rilancia: «La Svezia è semplicemente molto brava nel marketing dei suoi brand a livello globale, soprattutto per un paese delle sue dimensioni. IKEA, Volvo, H&M, Electrolux, Ericsson, Spotify, Klarna, Linux. Sono sicuro di averne dimenticati alcuni. Suppongo che la loro diffusione globale della musica pop sia solo un'estensione di quel successo». Insomma, la domanda resta aperta. E fino a che lo sarà, il pop svese continuerà a dominare il mondo.

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