Bruno Mars sa scrivere solo grandi successi
Dal 2010 al 2016 Bruno Mars ha pubblicato tre album. Da allora il musicista nato a Honolulu l'8 ottobre 1985 non ha più fatto uscire una raccolta di canzoni a suo nome. "24k magic" rimane il suo ultimo recapito musicale. A seguire la recensione di quel disco che otto anni fa scrisse per noi Michele Boroni.
Nel corso dell'ultimo anno molte produzioni di black R'n'B hanno avuto una serie di caratteristiche comuni: dischi inutilmente lunghi, pieni di interlude parlati e tracce contenenti forme-canzoni liquide e destrutturate, un messaggio forte e denso di consapevolezza, un approccio arty nella confezione - dalla cover ai videoclip - e una strategia di lancio sempre più originale e complicata.
Da questo punto di vista Bruno Mars si ripresenta sulle scene come un vero e proprio “artista controcorrente” (molte virgolette) proponendo un disco breve, composto da nove canzoni-canzoni piene di suoni e atmosfere anni '90, senza alcun messaggio di empowerment o presa di coscienza, introdotto da una classicissima strategia di lancio (primo singolo uscito un mese prima, poi secondo singolo a pochi giorni del debutto del disco, insieme alla comunicazione delle date del tour). Insomma, un vero disco pop. E che funziona terribilmente.
Sì, perché Bruno Mars pur essendo solo al suo terzo disco, è un compositore di razza, capace di confezionare un disco pieno di hits senza per questo scomodare produzioni faraoniche e liste di featuring prestigiose. I primi due singoli mostrano i due punti cardinali dentro cui si muovono le tracce di questo “24K Magic”: il brano eponimo è il classico disco-funk, figlio di Zapp & Roger e della Gap Band, mentre “Versace on the floor” è una ballad “strappamutande” interpretata magistralmente con qualche vocalizzo tra Stevie Wonder e Michael Jackson.
Il disco è, per stessa ammissione di Mars, un grande omaggio alla musica afroamericana anni '90 che ascoltava da bambino: c'è quindi spazio per il new jack swing mescolato a "Remember the time" di Jacko in “Finesse”, ma anche il synth derivativo simile a quello di Rod Temperton in “Off the Wall” (“Chunky”) e tutta la grammatica liturgica di James Brown in “Perm”. Per l'altra ballad presente nel disco (la conclusiva e zuccherosissima “Too good to say goodbye”) ha addirittura chiamato il Babyface, ed è subito Boyz II Men - black vocal band molto popolare negli States negli anni 90.
Se nei due precedenti dischi il buon Bruno aveva tentato anche qualche sterzata verso il poprock bianco o il reggae, in “24K Magic” non si prende nessun rischio e va sul sicuro. Unica traccia con un beat contemporaneo è “That's what I like”, per il resto gli amanti dell'R'n'B troveranno mille rimandi a band come New Edition, Jodeci e alle produzioni di Jimmy Jam e Terry Lewis che spopolavano nelle classifiche di 20-25 anni fa. Poco più di 30 minuti per nove popsong potenziali hits che invaderanno le radio Fm e le playlist dei servizi streaming, ottimamente prodotte ed eseguite ma che, pur non calcando troppo la mano sulla retromania, non aggiungono niente alla florida scena black e al talento di Mars.