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Springsteen, "Born in the USA", Milano: la cronaca del live (1/2)

In occasione della ristampa del disco, riviviamo canzone per canzone lo show a Milano dell''85.
Springsteen, "Born in the USA", Milano: la cronaca del live (1/2)

Un anno prima aveva pubblicato "Born in the USA", l'album che lo aveva reso un'icona globale. Un anno dopo, eccolo per la prima volta in Italia in concerto. Direttamente sul palco di un tempio della musica dal vivo del nostro Paese, lo Stadio San Siro di Milano. I festeggiamenti legati al quarantennale dell'uscita di "Born in the USA", pietra miliare della discografia di Springsteen e del rock più in generale appena tornata nei negozi in una speciale ristampa per Sony Music (in vinile colorato con un packaging ampliato: si può acquistare a questo link), sono anche l'occasione per rivivere la magica sera in cui Bruce Springsteen suonò per la prima volta davanti al pubblico italiano. Era il 21 giugno 1985. Non era ancora l’epoca dei cartelli con le richieste del pubblico, delle scalette in tempo reale su Internet, dei collezionisti di esibizioni dal vivo. Di Bruce Springsteen non si sapeva granché e quel poco era circondato dall’aura del mito bello e lontano. Eppure le 28 canzoni che Springsteen e la E Street Band suonarono la sera del 21 giugno 1985 allo Stadio Meazza di Milano sono entrate subito nella memoria collettiva.

Il packaging della ristampa in vinile rosso traslucido di Sony Music include anche una copertina apribile e un libretto esclusivo arricchito con materiale d’archivio dell’epoca, nuove note di copertina redatte da by Erik Flannigan e una stampa in litografia a quattro colori.  “Born in the U.S.A.” ha catturato perfettamente lo zeitgeist della cultura pop-rock di una generazione. Detiene il record imbattuto di 7 singoli della tracklist dell’album nella Top Ten Singoli, ha venduto 17 milioni di copie e il relativo tour, quello che approdò anche in Italia, fece registrare 156 live sold-out in tutto il mondo.

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Ecco la prima parte della scaletta del leggendario show a San Siro del 1985, accompagnata da brevi annotazioni. Alcuni bootleg dell’epoca presentavano le canzoni in un diverso ordine, per la difficoltà di contenere tutto il concerto su otto facciate a 33 giri.

Born in the U.S.A.

Annunciata dal potente “One/two - one/two/three/four!” urlato al microfono da Springsteen, la canzone/chiave di quello che era il suo ultimo album fu eseguita in apertura. Una scelta inusuale, considerando che si trattava di un pezzo potenzialmente da bis, ma significativa del fatto che i concerti del rocker si stavano trasformando in riti. Springsteen aveva cominciato a piazzarla in apertura dello show, a mo’ di manifesto, dalla seconda data del tour al Civic Center di St. Paul, Minnesota, il 1° luglio 1984.

Badlands

Negli Stati Uniti “Badlands” era l’apertura alternativa a “Born in the U.S.A.”, usata per differenziare la scaletta quando Springsteen teneva due concerti nella stessa città. Del resto “Badlands” già apriva i concerti del tour di “Darkness on the edge of town”, l’album del 1978 che la contiene. Springsteen era partito in tour, il primo dopo tre anni, con l’idea di bilanciare le canzoni nuove con quelle dei vecchi album, ad eccezione dei primi due, quasi totalmente ignorati.

Out in the street

All’inizio della canzone Springsteen pronunciò le prime parole, “Ciao Milano”, per poi concludere con “It’s nice to meet you, Italy”. L’inizio di una love story destinata a durare decine di anni. “Out in the street” era anche il pezzo in cui la nuova corista Patti Scialfa si ritagliava un piccolo spazio: l’inizio, o quasi, di un’altra love story ultra-decennale. La cantante era stata ingaggiata con soli quattro giorni di preavviso sulla partenza del tour: il suo ruolo era coprire le parti cantate un tempo da Little Steven, assente in quel tour salvo alcune sporadiche ospitate.

Johnny 99

L’album acustico del 1982 “Nebraska” non era stato portato in tour e quindi, anche per il pubblico americano, canzoni come “Johnny 99” rappresentavano una novità. Se nelle prime date americane il cantante aveva dato a “Nebraska” e “Born in the U.S.A.” lo stesso peso, in Europa le cose andarono diversamente e al disco del 1982 furono riservate due sole canzoni, entrambe suonate all’inizio: “Johnny 99”, per voce, chitarra acustica e armonica a bocca (e sul finale i piatti della batteria di Max Weinberg), e “Atlantic City”.

Atlantic City

Nel libro biografico “Big man”, Clarence Clemons si attribuisce in qualche modo il merito di avere convinto Springsteen e suonare dal vivo la versione con la band di questa canzone, al posto di quella acustica originale. Il dialogo si tiene nel 1983. “Come sta andando ‘Nebraska’?”, chiede il sassofonista. “Bene”, risponde Bruce. “Pensavo che ‘Atlantic City’ venisse bene con la band”. “Meglio?”. “Diversa. Con più calore”. “Forse hai ragione”. “Ho sempre ragione”.

The River

Riconosciuta dal pubblico dal momento stesso in cui Springsteen soffiò nell’armonica a bocca, era oramai uno dei capisaldi del suo repertorio e continuerà ad esserlo: si calcola che il rocker l’abbia suonata più di 600 volte. Proprio durante il tour di “The River”, nel 1981, una rappresentanza di fans italiani era andata a vedere Springsteen in concerto a Zurigo, in Svizzera, tornando con storie mirabolanti.

Working on the highway

Per i 65.000 di San Siro, quella sera il rockabilly suonò come uno stile meno lontano nel tempo e nello spazio grazie a questa canzone, un inno alla classe operaia che in realtà nascondeva un’anima più cupa: era stata scritta per “Nebraska” col titolo di “Child bride”.

Trapped

La cover di Jimmy Cliff (1971) rappresentava una sorpresa per larga parte del Meazza, ma meno di quel che s’immagina: era stata pubblicata due mesi prima all’interno del 33 giri benefico “We are the world”, uno dei dieci album più venduti in Italia nel 1985. Springsteen e la E Street Band la suonavano già nel tour di “The River”.

Prove it all night

A San Siro il pezzo fu arricchito da un lungo assolo finale di chitarra elettrica. Durante il tour di “Darkness on the edge of town”, l’album che la conteneva, la canzone si espandeva fino a toccare i dodici minuti di durata.

Glory days

Pubblicata su 45 giri un mese prima dello show di San Siro, era “una canzone sul diventare vecchi”, così la introdusse Bruce che diceva di sentirsi tale a 35 anni. A Milano fu introdotta da una lunga serie di “All right”, “Oh yeah” e “Uh oh ah oh” intonati col pubblico e chiusi da un “Fantastico!” in italiano. Una festa. “All right, Milano, express yourself!”.

The promised land

All’epoca, seconda metà degli anni ’70, Springsteen stava “cercando un tono intermedio tra la spiritualità speranzosa di ‘Born to run’ e il cinismo degli anni ’70. Volevo che i miei personaggi si sentissero consumati, invecchiati, ma non vinti”, come racconta nel libro “Songs”. A San Siro “The promised land” divenne un potente inno alla gioia, anticipato dagli “alè/oo” del pubblico, all’epoca una costante dei concerto.

My hometown

“Questa canzone è dalla mia città alla vostra città”, disse Springsteen in italiano quella sera, creando un legame fra Milano e un posto lontano 6500 chilometri, Freehold nel New Jersey. È una storia di ricordi d’infanzia intrecciati a un presente drammatico fatto di disoccupazione che strangola la città natale di Springsteen. “Il posto in cui sei nato ti resta dentro, sempre”.

Thunder road

Nel corso del tempo “Thunder road” aveva cambiato radicalmente ruolo: da canzone di apertura del concerto a pezzo di chiusura della prima parte. “Ci vediamo fra mezz’ora”, disse Springsteen in italiano quella sera. All’epoca andava dicendo che quando “Thunder road” veniva cantata in coro dal pubblico diventava ancora più potente: “È in quel momento che il rock’n’roll si realizza al massimo delle proprie potenzialità” (da “E Street shuffle: i giorni di gloria di Bruce Springsteen & the E Street band”). A San Siro Springsteen sottolineò il passaggio “Sai perché sono qui” facendolo suonare come “Sapete perché sono qui”: la canzone sulla grande fuga di due amanti diventava un inno alla fuga collettiva grazie al potere del rock.

Cover me

“La seconda parte dello spettacolo” scrisse Dave Marsh nel libro “Glory days” dedicato a quegli anni “vuole essere più leggera, all’insegna del divertimento, dopo un primo tempo serioso. Ma ‘Cover me’ offre solo una vaga allusione a questa trasformazione. Sembra addirittura che questo brano si sia meritato il posto di apertura della seconda parte del concerto proprio in quanto richiama tutto quello che c’è stato finora. È l’ultimo assaggio di blues prima dell’abbandono, il quale viene proposto immediatamente dopo con ‘Dancing in the dark’”.

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