Il neo-realismo di Baby Gang ci mette davanti a un bivio

Agli incroci più difficili della vita, e anche a quelli più interessanti, non c’è segnaletica. Non esistono istruzioni per l’uso. Baby Gang è a un crocevia: uscire dal mondo torbido e di disagio da cui è stato sputato fuori mettendo definitivamente il suo grande talento al totale servizio della musica, o tornare indietro, nell’inferno della delinquenza a cui sembrava già predestinato da giovanissimo.
Un ascensore sociale
Non è una questione di “arrivare a fare i soldi per chiudere con il passato”, c’è qualche cosa di più profondo che ha a che fare con il riscatto di un’esistenza. Lo dice apertamente anche nelle sue barre imbevute di nitroglicerina creativa: “Voglio andare in paradiso. Non mi serve la Visa né il viso da pentito, sta vita anche da ricco con i soldi farà schifo”. Il rap, più che mai nel caso del rapper di Lecco, è un vero ascensore sociale capace di cambiare le coordinate di un percorso. Ma non c’è confusione sotto il suo cielo, rabbia sì, come quella che deve aver provato quando all’ultimo minuto gli è stato impedito dal giudice di venire a raccontare la sua nuova musica ai giornalisti o di suonare live al Forum di Milano, ma confusione no. “Una penna può far più male di un'arma”, rappa con una nuova consapevolezza in “In Italia 2024”. E non c’è, sia chiaro, vittimismo o giustificazione nei confronti dei suoi errori, neppure da parte di chi scrive.
“Siete lo stesso coinvolti”
Baby Gang, oggi agli arresti domiciliari, la sua scelta, in realtà, sembra averla già presa: “L’angelo del male”, il suo nuovo album, è un grande megafono. È l’album del rapper italiano più ascoltato in Europa, è un album che, volutamente, per alzare la voce tutti insieme, raggruppa i nomi più importanti della scena italiana (Paky, Blanco, Marracash, Emis Killa, Jake La Furia, Geolier, Gemitaiz, MadMan, Lazza, Tedua, Sfera Ebbasta, Guè, Simba La Rue, Rocco Hunt, Niko Pandetta, Fabri Fibra, Ernia e Rkomi), ed è quindi già destinato al trionfo dei numeri grazie alla spinta delle nuove generazioni. Ma sarebbe riduttivo affrontarlo “solo” attraverso la freddezza dei dati. “Anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”, cantava De André. Sì, perché a quel bivio si trovano anche tutti quelli che Paola Zukar, citando Alberto Moravia, ha definito “gli indifferenti”, chiamati a una scelta davanti a un album di questo tipo: ascoltare quello che ha da dire Baby Gang o rifiutarlo aprioristicamente? Sforzarsi, anche mettendo a soqquadro i propri valori, d’altronde l’arte è meravigliosa anche per questo, o giudicare senza appello? Scalfire l’indifferenza ed evitare di ridurre Baby Gang a un qualunque rapper dai tanti Dischi di Platino e basta, comprendendo come la sua musica sia un vero romanzo di formazione in cui dal buio si può passare alla luce, sarebbe la vera, liberatoria, vittoria per il suo percorso.
Un sound dalla strada
Su quel confine labile, su quel miscuglio, tra “bene” e male”, come dimostra anche la cover e il titolo del progetto, Baby Gang ha costruito un album neo-realista in cui sputa la sua vita con il tiro corrosivo del gangsta-rap. E lo fa con una forza e un estro che in Italia non si vedevano da anni perché costringe a confrontarci con i nostri valori da una prospettiva scomoda. I pezzi dinamitardi iniziali come “Guerra”, “Bloods&Crips”, in cui sembra non ci sia respiro, e “Gangster”, in cui confessa “soldi armi e droga mi hanno dato alla testa”, fanno divampare l’incendio, ma c’è di più: brani come “Adrenalina” con Blanco e Marracash o “Liberi”, una delle tracce che andrebbe fatta ascoltare agli “indifferenti”, mostrano un Baby capace di spaziare e di non chiudersi nel solo rap da battaglia. E non manca anche “il gioco” come fotografa, per esempio, “Italiano” con Niko Pandetta, e un tuffo nei sentimenti più limpidi, ma non spogliati dal dolore della solitudine: “Sola” con Lazza e Tedua. “L’angelo del male” è un disco che si ciba di strada, a livello di racconto, ma anche di sound: ci sono il rap, l’elettronica, il latino, richiami alle melodie e allo slang dei migranti, ovvero tutte le colonne sonore che avvolgono l’asfalto delle nostre città e province. Higashi, che ha curato la maggior parte delle produzioni, si conferma fortissimo nello scolpire il suono giusto per la voce di Baby, un suono ricco di cultura e riferimenti hip hop.
Un album neo-realista
Tra padri chiusi nei penitenziari, regali di Natale e di compleanno mai ricevuti, spaccio, fame, violenza, invisibilità, invidia sociale, Baby Gang traccia la sua storia. Il bivio è sempre lì, come ci ricorda in “Assistente sociale” con Simba La Rue, tra i banchi di scuola e i reati. Baby Gang non scimmiotta l’immaginario americano, in “Millionaire” rappa “questa non è Atlanta”, ma ci trascina dentro quei centri urbani degradati, i nostri, di cui spesso dimentichiamo gli aspetti più terribili. Non tutto è a fuoco, ci sono anche tentativi furbi di realizzare pezzi radiofonici come “Serenata gangster” con Rocco Hunt che, però, non annacquano il progetto.
Che questo album non sia come gli altri, un album lavorato con grandissima difficoltà per le limitazioni a cui è soggetto il rapper, lo hanno capito anche gli ospiti, che lasciano alcune delle loro migliori barre degli ultimi anni: ascoltate “Huracàn” con Gemitaiz e Madman o “Non mi vedi” con Fibra, Ernia, Rkomi e Geolier. Gli ospiti, come sempre meno spesso accade in un disco rap, a questo giro arricchiscono per davvero i brani. In “Venom”, la traccia di chiusura, Baby Gang, parla dell’oscurità e della morte degli eroi, in particolare dell’Uomo Ragno, quasi rievocando la hit degli 883. Nel mondo di rovine che dipinge, con una poetica sporca, sofferta e vivida, al contrario di ogni previsione, ci si salva, forse, da soli.