Mahmood: "I numeri vanno su e giù, bisogna credere nelle canzoni"

Una sorta di han'yō, un semidio, della musica italiana, che per sua natura non vuole rinunciare a una “vita normale”. Amando la mitologia e i manga giapponesi, la metafora, forse un po’ pleonastica ma efficace, gli piacerà. Da una parte, infatti, Mahmood fa numeri ultraterreni, “Tuta Gold”, dati alla mano, è la canzone vincitrice dell’ultimo Festival di Sanremo, dall’altra, in pieno tour europeo con un mare di date sold out, dormendo appena tre ore dopo un concerto, a Parigi si è preso del tempo per andare a Disneyland come un ragazzo qualunque, con i suoi amici di sempre: “Biancaneve era bellissima, Pippo sembrava strafatto”, racconta con il sorriso. Non è certo l’unico o il solo. Volando più in alto: anche Dua Lipa sui social, spesso, mostra o viene immortalata in scampoli di “esistenza semplice”, lontana dai riflettori, con i suoi affetti nella quotidianità. In quella verità, per nulla scontata, c’è qualche cosa di magico che si riflette anche nella forza delle canzoni.
Il tour europeo è partito i primi di aprile dal Lussemburgo e dopo diverse tappe arriverà in Italia a maggio. Come lo stai affrontando?
Con grandissima energia, che però va dosata. Sono felicissimo di queste prime tappe e di come mi sta accogliendo la gente, per me è fondamentale calibrare bene il tutto per cercare di non disperdere l’energia, che in questo momento sento di avere dalla mia parte.
Quando un italiano canta all’estero c’è sempre qualche scettico che dice: “riempie i club di italiani, non di persone del posto”.
Guarda, a Zurigo sono sceso dal palco, tra la gente, per cantare “Rapide”. Ho passato il microfono a cinque persone diverse nelle prime file e nessuno sapeva bene le parole, o meglio conoscevano le parole, ma non le pronunciavano nel modo corretto. Questo perché non erano italiani. E infatti quando sono tornato sul palco ho smesso di parlare in italiano tra una canzone e l’altra, ma ho utilizzato l’inglese. Quindi ti dico: in questi concerti ci sono sì gli italiani, ma non così tanti come si pensa.
Città che ti hanno colpito?
Tutte hanno un’energia particolare. Parigi è stata una bomba, Londra indescrivibile. Sono molto curioso di andare in Spagna. Per me non ci sono differenze a livello di pubblico sul piano dell’appartenenza. Mi spiego: il pubblico italiano non è più o meno caldo rispetto a quello internazionale, quello che davvero fa la differenza è l’energia che esprime, che emana, in quella particolare circostanza o serata. Anche i club fanno la loro parte, sono tutti diversi tra loro.
Se dico che hai raccolto di più, sul piano dello spessore artistico, da questo Festival di Sanremo in cui sei arrivato sesto rispetto a quello vinto con Blanco nel 2022, sbaglio?
No, è andata così. Come team siamo andati molto preparati a questa ultima edizione del Festival, ho pubblicato il disco “Nei letti degli altri” di cui “Tuta Gold” è una parte fondamentale. Siamo andati a Sanremo proprio con l’idea di promuovere un progetto su cui ho lavorato due anni e mezzo. Con Blanco avevamo una canzone, un episodio che si fermava lì. Sono stati due approcci al Festival molto diversi tra loro.
“Nei letti degli altri” che cosa rappresenta per te?
È il disco più empatico che abbia mai scritto. È figlio di un lungo lavoro fatto su di me, sul cambiamento che ho avuto anche nel relazionarmi con le altre persone. Le canzoni sono nate di pari passo con un processo di autoanalisi.
Il successo di “Tuta Gold” dimostra che c’è sempre di più un gusto nuovo, anche in Italia, per un certo genere di musica?
Il pezzo, già di per sé, nasce per essere qualche cosa di diverso da tutto quello che avevo fatto prima. Non avevo mai scritto su un baile funk, la mia idea era quella di realizzare un brano con quel ritmo, ma dal testo malinconico. Detto ciò, mai e poi mai mi sarei aspettato un successo come quello che ha ottenuto.
Hai collaborato con Angèle in “Sempre/Jamais”. Punti ad altre collaborazioni di livello internazionale? Qualche nome?
Non li faccio più. Ogni volta che racconto con chi sogno di collaborare alla fine non succede nulla. Stop nomi (ride, ndr). Con Angèle è stato speciale, abbiamo proprio fatto abbracciare due mondi, che hanno delle differenze. Ci siamo scritti su Instagram, poi beccati diverse volte a Parigi. Abbiamo scritto il ritornello insieme e poi le strofe separati, per questo si sente un’unione particolare. Non è stato un feat “piazzato”, di quelli che devi fare per forza, è nato in modo vero e naturale. E comunque sì, ho in serbo altre collaborazioni internazionali.
Che cosa stai ascoltando in questo periodo?
Doja Cat. Mi piace il pezzo “Headhigh”.
Dopo il live a Parigi, hai trovato anche il tempo di andare a Disneyland con gli amici. Quanto è importante preservare questa parte di “vita vera”?
Fondamentale. Il tour fa parte della vita di un cantante che, però, non può e non deve rinunciare, per me, a tutto il resto. Io sarò in tour fino a ottobre con le date nei palazzetti, se mi privassi di momenti come quello a Disneyland morirei un po’ dentro e non sarei felice.
La pressione dei numeri, a volte, ti impedisce di stare bene?
Ho imparato a prendere i numeri con le pinze: domani ci sono, dopodomani non ci sono più. Vanno su e giù a seconda dei periodi, le carriere non possono essere dettate dai numeri. La cosa più importante è credere nelle canzoni che si sono scritte e che si portano in giro nei concerti, per sempre. Bisogna essere orgogliosi dei brani che si cantano, di quello che si è fatto, se non è così, credo ci sia un problema. Sono le canzoni a restare nel tempo.