Il rap è (ancora) sotto attacco

La presentazione dello show Netflix “Nuova scena”, con Fabri Fibra, Rose Villain e Geolier, è avvenuta in un clima surreale, come se stessimo vivendo in due Paesi distinti: da una parte una delle più importanti piattaforme di streaming al mondo importa uno show di successo in Italia dedicato al rap, uno show realizzato con un budget di produzione elevato e pensato per fare numeri imponenti a livello popolare, sull’onda del successo mainstream del genere in questi ultimi anni, dall’altra una parte del Paese attacca quel genere, invoca censura, daspo e confeziona servizi televisivi surreali in cui alcuni dei suoi protagonisti, uno su tutti lo stesso Geolier, il “capro espiatorio” del momento, vengono raccontati come “cattivi maestri che incitano all’uso di armi e droga”.
Il tutto avviene in salotti tv con cosplayer di rapper e imitatori di Baby Gang e Simba La Rue. No, non è il teatro dell’assurdo di Samuel Beckett, quello era di alto livello culturale, questa è la realtà. “Speriamo sia sempre così (che ci sia qualcuno che vuole ‘male’ al rap), se non sarà così non ci sarà più motivo per fare rap ancora”, ha detto Fabri Fibra, alla presentazione di “Nuova scena”, ricordando e rivendicando la natura corrosiva di questo genere, che non deve essere accomodante a tutti i costi. Ma che il rap italiano sia (ancora una volta) sotto attacco, è evidente. E invece di limitarsi ad adulare in modo adolescenziale gli annunci dei listening party di Kanye West, forse sarebbe il caso che chi ama la cultura hip hop ne prendesse atto.
La vera “colpa” di Geolier, per i suoi detrattori? Il successo. Il successo non viene mai perdonato a chi non è allineato a un certo profilo, accettato, di vincitore. È anche vero che se giochi nel campionato sanremese (in cui il rap diventa una sorta di “grande truffa”, per usare le dure e condivisibili parole del collega Damir Ivic), sai che tutto può accadere: è il motivo per cui artisti come Marracash e lo stesso Fibra ne stanno alla larga. Ma questa non può e non deve essere una giustificazione. Geolier, con grandissima lucidità e maturità, sta dribblando ogni tentativo di depotenziarlo in questo post Sanremo pieno di polemiche. Un Junior Cally qualsiasi qualche anno fa rimase schiacciato dalle polemiche scatenate nella Città dei Fiori. A questo giro nel mirino è finito il rapper di nuova generazione più amato, un potenziale gol in rovesciata per chi costruisce in laboratorio il mostro del sensazionalismo: è stato ripescato il suo vecchio video del 2019 “Narcos” in cui si mostra armato di un kalashnikov giocattolo, un video che lo stesso Geolier, al ritorno da un Festival giocato ad altissimi livelli, ha spiegato che oggi non realizzerebbe più. Una clip che comunque non rappresenta la sua vita, ma è una narrazione estremizzata di alcune dinamiche di strada. Insomma, un racconto con i filtri del rap, anche discutibile se vogliamo, siamo d’accordo, ma che va contestualizzato. Perché non vengono fatti ascoltare brani più recenti di Geolier, come “I am” o “Non ci torni più”, pezzi bellissimi in cui il rapper racconta di come la vita criminale porti alla rovina? La risposta è scontata.
Non dimentichiamoci che l’Italia è il Paese in cui, nel 2018, dopo la tragedia di Corinaldo, per una parte dell’informazione e dell’opinione pubblica, il problema sembrava essere quello che canta nei suoi brani Sfera Ebbasta, quasi fosse lui la causa di tutto quel dolore, e non le condizioni di sicurezza per cui morirono sei persone. Una parte di questo Paese rifiuta a livello culturale e sociale il rap, lo demistifica a priori e non fa passi di avvicinamento per comprenderlo. Per alcuni poteva sembrare solo una boutade quella fuoriuscita dalla Milano Music Week, durante cui il sottosegretario alla Cultura Gianmarco Mazzi chiedeva una sorta di censura per i testi rap, ma in realtà il livello del dibattito nel Paese, lo dimostrano questi giorni convulsi, è andato a inacidirsi, imbarbarendosi sempre di più.
Dopo le prese di posizione di Ghali e Dargen D’Amico sul palco dell’Ariston, che hanno denunciato la tragicità della guerra in Medioriente, il sottosegretario Alessandro Morelli ha proposto un daspo per gli artisti, che come burattini, in tv, dovrebbero solo cantare e non esporsi, come se musica e visione della vita/idee personali fossero mondi separati. La verità è che il rap, nonostante questi attacchi frontali, è una macchina in corsa che non può essere più fermata. Lo dimostrano i numeri dei live e degli ascolti, ma soprattutto quanto sia entrato nella quotidianità delle nuove generazioni. È entrato, sfondando la porta, nella cultura dei ragazzi e delle ragazze, che lo utilizzano come mezzo per rivedersi o raccontarsi. La sensazione è che questo scontro con il rap sia puramente funzionale, semplicemente permetta di spostare i riflettori su ciò che è facile attaccare, nascondendo i veri problemi del Paese. C’è chi, da tempo, le chiama “armi di distrazione di massa”.