Cosa ho imparato da Sanremo 2024
La Canotta Is The New Smoking. L’alternativa alla giacca da uomo è la maglia a rete, per prendere la situazione di pettorali.
Fare le cover è diventato un modo per celebrare se stessi. Un ossimoro musicale, oltre che un’occasione persa e un indizio di sicumera.
I medley sono il coito interrotto della musica, un continuo tradimento del discorso emotivo. Andrebbero vietati per rispetto alla natura stessa della canzone, che instaura solo rapporti monogamici con chi la interpreta.
I fiori di riviera sono bellissimi ma nessuno li vuole. Darli via prima di raggiungere il backstage, a chi non sa che è una sfida del FantaSanremo, sembra un disbrigo spacciato per gesto di cortesia. Un po’ come il riciclo dei regali natalizi fatto in tempo reale davanti ai cugini: sgarbato.
Lorella Cuccarini ci ricorda che i testi dei musical tradotti in italiano sono terribili. E il perfetto Roberto Bolle ci getta in totale confusione su cosa meriti una standing ovation e cosa no. Solidarietà alla signora che ha provato ad alzarsi in piedi e si è ritrovata come un pino nel Sahara.
I direttori d’orchestra sbacchettano scenograficamente. Da incompetente mi domando: a che serve coordinare gli orchestrali quando la maggior parte delle canzoni in gara hanno la cassa in quattro, cioè un metronomo integrato? Se la risposta è “a niente”, ecco una soluzione al taglio delle spese.
Le mamme sono i veri motori del rap. Dietro ogni rapper c’è una madre che dissa: «Non ti sei messo la maglia di lana!» (effetti collaterali della mise a rete).
Il galateo sanremese (importantissimo nel Baudocene) non esiste più. C’era un tempo in cui tra un pezzo ed un altro, un artista ed un altro, non volava una mosca. Ogni gesto o parola extraesibizione era considerato uno sgarbo, un fastidioso vantaggio, una captatio benevolentiae. Ora ognuno prende il microfono per minicomizi e dediche. Come fosse un post qualunque. Addio solennità. Peraltro molti non sanno che, al FantaSanremo 2024, se fai dichiarazioni e gesti contro ogni discriminazione, a favore della pace o contro la guerra, prendi punti. È una regola che svilisce e inquina ogni esternazione fatta dagli artisti. Una cosa di coscienza, serissima, che magari avrebbero detto comunque, si è trasformata in uno scherzetto a squadre. Il resto diverte, ma su questo punto, in futuro, cessate il gioco.
Il tempo è una dimensione collettiva. È vero che un secondo, per una persona, può durare un’infinità, ma è indiscutibile che per dieci milioni di spettatori sei ore sono precisamente sei ore. Ingiustificate dalla qualità media della proposta, e offensive per quei medievali che si ostinano a lavorare sulla carta stampata e che, a giornali in chiusura, ancora non hanno il nome dei vincitori.
Per fare un tavolo ci vuole un fiore, per fare una canzone sanremese ci vogliono almeno quattro autori. A volte sei. A volte gli stessi autori firmano più canzoni. Con risultati a dir poco elementari. Soprattutto nei testi. W la squola.
Il Festival, più che servizio pubblico che propone, fa scoprire, educa, è una manifestazione che insegue il gusto corrente e serve il pubblico. Dei social, principalmente. Il quale premia fedelmente l’artista, non la canzone. Per onestà, si potrebbe ribattezzare “Festival dei Cantanti Italiani”. Anche se poi, molti si confermeranno più dei parlatori. Allora, forse “Festival dei Profili Italiani”?
Tilt. C’è un corto circuito. Si difendono i brani in corsa come una nuova evoluzione della musica italiana, però, quando c’è da creare “il momento alto”, “il momento speciale”, il festival convoca gli artisti d’altri tempi, quelli che compongono come non si compone più. Niente di ciò che sta in gara, rassomiglia a ciò che portano in dote gli ospiti. Da Giorgia a Mengoni (che è un tradizionale-moderno), da Gino Paoli a Elisa, per elevare il livello, per ripristinare bellezza e gusto, si guarda sempre altrove. Se non è un’ammissione di colpevolezza questa...
È finalmente chiaro che il numero di spettatori non corrisponde al gradimento degli spettatori. Non è oggettivamente il più bel Sanremo degli ultimi anni, eppure ha battuto tutti i record. Chi verrà dopo Amadeus, dovrà fare un festival peggiore per avere ascolti migliori?
Se non vuoi affrontare la gara, o non avevi un brano all’altezza della gara, puoi sempre esibirti sul palco in piazza o sulla nave e affondare chi in gara ci sta, facendo scivolare la sua esibizione negli abissi della notte.
L’effetto “Mon amour” di Annalisa ha contaminato l’intera edizione. L’idea di mettere parole meno leggere su una base danzereccia si è epidemizzata, trovando diversi corpi-ospiti (Emma, Fiorella Mannoia, Angelina Mango etc). Annalisa, sinceramente, tu che muovi i clic e le altre penne, puoi uscire con una canzone d‘autore? Magari altri seguiranno, e Diodato si sentirà meno solo.
Dare più potere alle radio è come firmare un invio di armi all’esercito più forte. Pezzi già costruiti per le radio, sono votati poi dalle radio. Vige un grande malinteso: non esiste la canzone non radiofonica. Esiste la canzone che diventa radiofonica perché qualcuno si prende la briga di passarla per radio abbastanza da farla assorbire a chi ascolta. È successo questo in passato, da “I giardini di marzo” (durata 5 minuti e mezzo) a “Disperato erotico stomp” (durata 6 minuti), da “Paranoid Android” (6 minuti e mezzo) a “Stairway To Heaven” (10 minuti e mezzo).
Sanremo non ha dimenticato proprio nessuno. Il liscio, Toto Cutugno, gli anniverari di Eros e Giorgia, i trattori, i nomi della moda italiana, le audiocassette, addirittura i Jalisse. Manca solo lo scomparso Franco Migliacci. Che vuoi che sia? Ha "solo" scritto “Nel blu dipinto di blu”, che ha spedito il festival nel mondo. La canzone è stata trasmessa all’Ariston mentre si promuoveva il film “Volare”. Migliacci ha scritto anche “C’era un ragazzo”, che Gianni Morandi ha cantato con l’intero teatro. Rai, se non hai memoria, almeno impara a cogliere i segnali e unisci i puntini.
"Chi critica le novità è un dinosauro che non si rassegna al cambiamento, afflitto da un senso di superiorità generazionale". Questo è un ennesimo malinteso. I giurassici hanno grande fiducia nelle novità, perciò le spingono a non giocare al ribasso, a non accontentarsi di stare nella marea. Che sennò, fra trent’anni, i nuovi ancora più nuovi, al Sanremo su Marte, non avranno nessuno di questi decenni da coverizzare.
Simona Orlando, Giornalista professionista, ha collaborato con "Rockstar" e "Radio24",
Ha scritto libri musicali (sui Rolling Stones, con gli Afterhours e con Elisa) e non (sul G8 e con Don Gallo) e spettacoli teatrali ("Nido di vespe" sul rastrellamento del Quadraro, "Orcolat" e "Franciscus" con Simone Cristicchi). Per anni firma de "Il Messaggero", attualmente collabora con "Repubblica" e "Rockol".