Come i Dream Syndicate si sono ritrovati qua

"Come mi sono ritrovato qua?", recitava il titolo di un disco dei Dream Syndicate. Era il 2017, la band si era riunita da 5 anni, ma quello era il primo lavoro di studio in quasi tre decenni. Inagurava una seconda fase che si è rivelata musicalmente notevole quanto la prima.
Oltre 40 anni storia di un gruppo che potremmo definire “seminale” e “di culto”, se queste due espressioni non facessero parte di un linguaggio stereotipato e abusato del giornalismo musicale. Però, sì: la band di Steve Wynn ha avuto una profonda influenza su un certo tipo di rock americano, distaccandosi da quello che succedeva negli anni ’80 dall’altra parte dell’oceano, e ancora oggi conserva un seguito appassionato, per quanto di dimensioni ridotte. Questa storia viene celebrata da due nuove uscite: la ristampa del primo, amatissimo album “The days of wine and roses”, che ha compiuto 40 anni lo scorso autunno, e un documentario, “The Dream Syndicate: How Did We Find Ourselves Here?”, disponibile (a noleggio o in acquisto) su Prime e Vimeo.
Il documentario racconta, con interviste e filmati d’archivio, la storia di una band unica, che si ritrovò ad essere diversa dalla musica che girava intorno in quel periodo, i primissimi anni ‘80: no post-punk, no new wave. Wynn aveva deciso di mettere in piedi un gruppo dopo essere cresciuto in California con il punk, e dopo avere visto un concerto di Bruce Springsteen, uno del leggendario tour del ’78. Poi però la sua musica prese un’altra direzione: “eravamo stufi di questa musica troppo cerebrale, volevamo perderci nel suono. E il modello erano i Velvet Underground”, racconta nel documentario. Il primo album, dopo un paio di EP, è il leggendario “The days of wine and roses” - appena ristampato per i 40 anni in una versione di 4 CD che contiene outtakes, demo, live. Un album di canzoni che conservano la rabbia del punk ma in una dimensione psichedelica fatta di riff ossessivi e flussi di coscienza. La psichedelia della east cost - vista dalla west coast.
Da lì poi sarebbe nato il movimento “paisley underground”, di cui si sarebbe innamorato anche Prince: la nuova psichedelia americana. I Dream Syndicate sarebbero finiti in tour con gli U2 e i R.E.M., sembrava potessero diventare la nuova grande band statunitense: tour attesimi, un contratto con una major, un grande produttore, Sandy Pearlman, già al lavoro con i Clash. Invece la storia si fa più tortuosa: cambi di direzione (“Volevamo suonare meno come i Velvet, più come Neil Young”, dice Wynn del secondo album “Medicine show”), cambi di formazione anche dolorosi: l’uscita di Kendra Smith, fascinosa bassista, uno scioglimento e una reunion con il passaggio da Karl Precoda a Paul B. Cutler alla chitarra. La storia si interrompe dopo neanche 10 anni e 4 album, nell’88.
Ma la sorpresa è che il ritorno è pari alla prima fase: Wynn ha un’affermata carriera solista - sempre di culto, s’intende, ma nel 2012 riporta la band in vita, con un nuovo chitarrista, Jason Victor. E poi iniziano a produrre dischi, 4 in 5 anni, uno meglio dell’altro: Il suono è acido e rock, si lanciano anche in lunghe jam, e scrivono stupende canzoni: uno dei rari casi in cui una reunion produce musica pari a quella della prima fase di una band, appunto.
“Non odio il mio passato, non ho alcun problema con quello che ho fatto prima, né con la scena fantastica da cui sono arrivato: per un anno abbiamo vissuto come Liverpool o Manchester o il CBGS’s: abbiamo suonato e passato tempo insieme, ci siamo scambiati idee”, ci ha ricordato qualche anno fa, quando lo abbiamo intervistato. I Dream Syndicate hanno già fatto i conti con il passato. Anniversari o no, ristampe e documentari: sono le ennesime occasioni per riscoprire una grande band rock fuori dal tempo.