Teoria della De-evoluzione, ultimo capitolo

Quando il 15 giugno del 2010 venne pubblicato l'album "Something for everybody" erano venti anni che i Devo non uscivano con un nuovo disco. Da allora – e sono passati tredici anni – non ne è più uscito un altro firmato dalla band di Akron, Ohio, e chissà se in futuro ne usciranno altri. Facciamo quindi un passo all'indietro e ci rileggiamo la recensione del disco che venne pubblicato a quel tempo, a firma Franco Zanetti, sulle nostre pagine.
Eh, è un problema. Cosa ci si può aspettare da una band che hai molto stimato – “amato” è una parola troppo grossa, per me e per i Devo – fin da quando hai comprato il suo primo singolo, nel (aaaagh!) 1977 (nell’edizione originale della Boojii Boy Records: lato A, “Mongoloid”, lato B: “Jocko Homo”) e che hai seguito con curiosità e attenzione finché ce l’hai fatta – diciamo fino a “Total Devo”, 1988: a cercare ed ascoltare “Smooth noodle maps”, 1990, non ci hai proprio più pensato?
Seguendo la teoria della de-evoluzione, geniale giustificazione musical-filosofica sulla quale i Devo hanno costruito la loro intera esistenza, da un disco che esce vent’anni dopo l’ultimo album di inediti ti puoi aspettare (appunto) una dimostrazione tangibile della de-evoluzione: per esempio, canzoni per bambini del 2010 (in stile Dev2.0: se non sapete di che parlo, andate a cercare su Wikipedia). Invece ci trovi quello che non ti aspettavi: una riproposizione degli stilemi classici della band (melodie semplici e orecchiabili, ritmi elettronici robotici e squadrati), che agli inizi erano originali e sorprendenti, oggi suonano inevitabilmente datati.
In un certo senso, con “Something for everybody” i Devo si trovano a competere in una scena sonora che hanno contribuito in maniera determinante a creare. Il guaio è che oggi i fratelli Mothersbaugh (Mark e Bob) e Casale (Jerry e Bob) hanno fra i 58 e i 62 anni, non hanno proprio più il fisico per le tutine di tyvek di cui furono i pionieri, e benché abbiano inventato una nuova maschera facciale non sono più, tristemente, credibili. L’autoironia non gli manca, e per fortuna!; ma un po’ di senso della misura (e del ridicolo) forse sì.
Ciò detto, la vera novità dei Devo versione 2010 è che hanno cambiato il colore del loro oggetto-feticcio, quella specie di vaso da fiori/stampo da budino (loro lo definiscono “energy dome”) che si mettevano in testa ai tempi di “Freedom of choice”: era rosso, è diventato blu, loro dicono come risultato della consultazione di un focus group – spero che ci stiano amabilmente prendendo in giro. Nei testi, ad aver voglia di andarseli a cercare sul loro sito (ma perché non metterli nel libretto?), ci sono ancora delle sferzate di ilare satira della vita contemporanea (in “What we do”: “Cheeseburger, cheeseburger, do it again!”); e alcuni brani sono innegabilmente efficaci (“March on”, per esempio, che non sfigura rispetto ai vecchi classici). Ma non basta, temo.
Da fan della primissima ora, avanguardista antemarcia, mi chiedo cosa possano dire al pubblico contemporaneo i Devo: a me, “Something for everybody” ha fatto venir voglia di andare a riascoltare “Q: Are we not men? A: We are Devo!”, l’album del 1978 prodotto da Brian Eno, "Smart Patrol"/"Mr. DNA" – la traccia migliore del successivo “”Duty now for the future”, 1979 – e soprattutto la fantastica “Girl U want”, brano di apertura di “Freedom of choice”, 1980. E mi ha fatto, una volta di più, rimpiangere i tempi del vinile: in formato 30 centimetri, questa copertina sarebbe stata ancora più eccitante.